Giusto trenta anni fa, nel 1985, fu pubblicato a Gaeta, per le cure del locale “Centro Storico Culturale” e in prima edizione[1], un volume di importanza storica per questa città: Proverbi e modi di dire del popolo gaetano, opera di Nicola Magliocca, un uomo, per dirla alla gaetana, con «quatte rétele de fronte»[2].
Il ponderoso volume si divide in due parti: la prima (pp. 13-122) è dedicata appunto a questi proverbi (in tutto 1278), seguiti, uno per uno, dalla traduzione in lingua, mentre la seconda parte (pp. 123-325) contiene 1169 modi di dire, di volta in volta tradotti e illustrati con ammirevole dottrina ed esemplare chiarezza[3]: il lavoro, che costò all’Autore anni ed anni di paziente e meticolosa ricerca, ha giusto lo scopo «di ricuperare e di divulgare … lo spirito e la saggezza del popolo gaetano» (p. 8).
Invece il presente contributo, a cui sembrava invitarci lo stesso Magliocca (p. 7): «con questa raccolta … non si ha la presunzione di aver compiuto un lavoro completo e perfetto», ha il solo intento di esaminare alcune di queste espressioni, per metterne in evidenza il pregio artistico e l’origine erudita: soprattutto, si consideri, questa, un’occasione per ricordare e rendere modesto omaggio al nostro insigne e benemerito concittadino Nicola Magliocca.
Non essendo l’ordine e la sistematicità il nostro forte, procederemo a sbalzi, cominciando dal termine famore, riferito dal Magliocca a p. 185 (n. 1653), e spiegato come una locuzione di senso causale, secondo l’esempio che si adduce: «famore ca sì cchiù ruosse (per il fatto che sei più grande) fai il prepotente con i ragazzini». Ma da dove ha origine questo curioso idiotismo? Guidati dal solo orecchio, noi avanzeremmo la seguente ipotesi: se dividiamo in due famore,si ottiene fa more, ossia «fa mora»; che si tratti di un composto potrebbero provarlo la presenza nel dialetto gaetano di analoghe formazioni dotte, come diasille = dies irae e ĝlibbranne=libera nos, e la stessa variante fammore con cui la parola è registrata dalMagliocca nel suo Dizionario Gaetano (Gaeta 1999)[4], quindi con il raddoppiamento dell’iniziale del secondo elemento del composto, come nell’ital. fannullone, da fa nulla (o anche ammodo = a modo). A vero dire fa mora, nel senso di fa indugio, diversamente da fa ostacolo, fa impedimento, non sembra suonare italiano: epperò facere moram è espressione del latino, attestata, giustappunto nel significato di «to cause delay», dagli esempi riportati dall’Oxford Latin Dictionary (s.v. mora, p. 1132,1b)[5]. Nel succitato esempio del Magliocca diventerebbe così chiaro che i ragazzetti non indugerebbero a reagire al sopruso subìto, se non fosse per l’imponenza del prepotente di turno che li inibisce. Se tale congettura non è campata in aria, famore (fammore) sarebbe un latinismo, uno dei tanti del dialetto gaetano, che lo stesso Magliocca non manca, all’occasione, di rilevare[6].
Il proverbio riportato dal Magliocca a p. 64 (n. 612): la cammise de gliu pòvere se la spàrtene glie pezziente (la camicia del povero se la spartiscono i pezzenti) – che esiste anche nella parafrasi ‘gaetanizzata’ (M. p. 107, n. 1122): Santu Cuóseme iette le pezze e San Giàcheme ci’ arrepezze=«S. Cosma (ritenuta una parrocchia ricca) butta i ritagli e S. Giacomo se ne serve per i rattoppi)» –, sia per l’immagine che per il verbo, sembra richiamare il Salmo XXI 19 diviserunt sibi vestimenta mea («si sono divise le mie vesti»). In realtà, il senso intimo della frase, che alla povertà non c’è fine, è fatto risaltare dal contrasto, non solo del numero ma anche concettuale, tra pòvere e pezziente[7]; orbene, tale contrapposizione riflette l’uso dei Romani, i quali distinguevano tra paupertas (povertà relativa)[8] ed egestas (povertà assoluta): cf. Cicerone, paradoxa Stoicorum 45 paupertatem vel potius egestatem ac mendicitatem ferre (=«sopportare la povertà, o piuttosto l’indigenza e la pezzenteria»)[9].
Un’altra locuzione particolare della parlata gaetana è: appriesse agli’ ùteme, come si usa dire dai ragazzi che fanno la conta prima di iniziare un gioco: «i so gli’ ùteme e tu appriesse a gli’ ùteme», annota il Magliocca (pp. 138 s., n. 1369), osservando: «sembrerebbe che dopo l’ultimo ci sia ancora un altro; ma non è così, ‘appresso all’ultimo’ significa semplicemente il penultimo». Non sembra che la lingua italiana conosca un tale uso di appresso[10], e tuttavia la particolarità potrebbe spiegarsi con l’uso attributivo dell’avverbio nella nostra espressione, per cui esso viene ad assumere il significato di ‘prossimo’; e nella nostra lingua ‘prossimo’ (come il lat. proximus da cui proviene), oltre che indicare successione immediata (‘il mese prossimo’), può anche riferirsi, sia pure meno comunemente, a un passato recente (‘passato prossimo’). Pertanto, il penultimo è quello che viene appriesse a gli’ ùteme per il fatto che, nel fare al tocco, è stato contato immediatamente prima dell’ultimo: lat. proximus a postremo.
L’effetto del proverbio (M. p. 38, n. 306): chi sta annanze me lasse e chi sta arrete me passe=«chi sta avanti mi lascia (più indietro) e chi sta dietro mi sorpassa» è nella contrapposizione logica tra lasse e passe, enfatizzata dal gioco paronomastico[11], dall’anafora (chi … chi) e dal parallelismo formale dei due membri della frase con i verbi in collocazione caudale. Ma quel che occorre rilevare è che, mentre l’uso transitivo di passare nel senso di «oltrepassare» appartiene all’italiano, l’uso assoluto di lassare[12], nel senso di «lasciare indietro», s’intende nella corsa (per terra o per mare, reale o, come sembra nel nostro proverbio, metaforica), corrisponde all’uso particolare dei verbi latini relinquere e deserere, come nei seguenti esempi di Ovidio: met. X 661 s. o quotiens, cum iam posset transire morata est | spectatosque diu vultus invita reliquit= «oh, quante volte lei[13], quando già poteva sorpassarlo[14], rallentò, e contemplato a lungo il suo viso, a malincuore se lo lasciò indietro!»[15], e ars II 725 ss. sed neque tu dominam velis maioribus usus | desere, nec cursus anteeat illa tuos; | ad metam properate simul =«ma, sfruttando le tue vele maggiori, non lasciare indietro nella navigazione la tua donna; ed essa, a sua volta, non preceda la tua rotta: tendete insieme alla meta»[16] (il raggiungimento del piacere nell’amplesso non è, come in una regata, una corsa a chi arriva primo alla meta, ma un traguardo da raggiungere insieme).
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A p. 197 (n. 1728) il Magliocca registra la seguente locuzione: glie Griece so fetiente!... (i greci sono gentaglia!...), chiosando: «Modo di dire ellittico che sottintende il seguito:… “ma voi li superate”»[17]. Francamente noi ignoriamo per quale personale risentimento i nostri padri gaetani reputarono di dover mettere in proverbio i Greci, sia pure come termine di confronto in una comparazione che implica gradazione dal meno al più, in un modo così sprezzante, sì che ci sembra probabile che tale ingiuriosa espressione voglia solo ripetere il tradizionale pregiudizio che i Romani, memori del perfido inganno con cui fu presa la patria del loro progenitore Enea, nutrivano nei confronti dei Greci, pregiudizio che ebbe la più alta espressione nel noto epifonema virgiliano (Aen. II 49): timeo Danaos[18] et dona ferentes («temo i Danai anche quando portano doni»), venuto poi in proverbio[19]. Pertanto il nostro modo di dire potrebbe avere carattere meramente letterario, senza alludere a qualche preciso avvenimento della millenaria storia di Gaeta.
Anche l’adagio, riferito dal Magliocca a p. 17 (n. 31): addevine e fatte re (indovina e fatti re) non ci è noto da altra fonte. Non avendo noi la presunzione di indovinare alcunché: Davus sum, non Oedipus (sono Davo, non Edipo)[20], né l’ambizione di diventare re, ci limiteremo a riferire il seguente passo dell’ecloga III (vv. 104 ss.) di Virgilio, il solo che ora ci viene in mente: dic quibus in terris (et eris mihi magnus Apollo) | tres pateat caeli spatium non amplius ulnas. || Dic quibus in terris inscripti nomina regum | nascantur flores, et Phillida solus habeto; la situazione è quella di due pastori che si sfidano a colpi di indovinelli: «dimmi in quale terra (e sarai per me il grande Apollo) lo spazio del cielo è ampio non più di tre cubiti»[21], propone Palemone a Menalca, e questi, a sua volta: «dimmi in quale terra sboccino i fiori segnati dai nomi dei re, e abbiti tu solo Fillide»[22]. Certo la forma paratattica del costrutto è sempre la stessa, ma i due premi sono tutt’altra cosa dal regno promesso nel nostro proverbio. Per questo è nostra meditata opinione che addevine e fatte re evochi piuttosto il mito di Edipo, il risolutore di enigmi per antonomasia, il quale, per l’appunto, divenne re di Tebe dopo aver sciolto l’indovinello della Sfinge[23] (e ucciso, o indotto a uccidersi quell’orrendo mostro). Se poi ricordiamo le modalità e le nefaste conseguenze dell’ascesa al trono dell’eroe simbolo della tragedia antica – vale a dire l’uccisione, inconsapevolmente, di suo padre Laio, le nozze incestuose con sua madre Giocasta, la procreazione di figli che gli erano anche fratelli (altro che l’enigma della Sfinge!), e ancora l’autoaccecamento in pena dei suoi delitti, e l’uccisione per mano reciproca dei figli Eteocle e Polinice – viene da chiedersi: vale così tanto indovinare e farsi re?
Splendida è la metafora da cui ha origine il detto (M. p. 61, n. 577): gliu sacche vacante ne’ se mantene all’aderte = «il sacco vuoto (la persona digiuna) non si mantiene all’impiedi». Sentendo profferire questo detto, verrà da pensare a Napoleone Bonaparte, il quale «ci teneva che al suo esercito venissero sempre assicurati i necessari rifornimenti, in modo che i soldati potessero alimentarsi a sufficienza: “Un soldato è come un sacco – sosteneva –. Per poter stare in piedi dev’essere pieno”»[24]. Applicata ai soldati, l’immagine risulterà ancora più efficace, ove si rammenti che i legionari romani, in procinto di combattere, erano soliti consumare il rancio all’impiedi[25].
La locuzione cantà la wàllere (cantare l’ernia scrotale) è così spiegata dal Magliocca (p. 149, n. 1436): «chi è affetto da tale male, burlescamente, è ritenuto capace di pronosticare i mutamenti meteorologici allorché glie cante la wàllere (gli canta l’ernia), cioè accusa qualche disturbo. Metaforicamente il detto vale anche per chi fa previsioni di eventi sfavorevoli, pur non essendo affetto da questo male. Allora si sentirà dire: Ma che te cante la wàllere? (ma che ti canta l’ernia?)». Usato così, quasi che la wàllere fosse la sibilla cumana, il verbo cantà ripete il latino cantare, che, come il semplice canere di cui è intensivo, può significare, in senso traslato e prevalentemente poetico, «predire cantando», come, p. es., in Columella, de re rustica X 80 veris … adventum nidis cantavit hirundo = «la rondine dal nido annunziò col suo canto l’arrivo della primavera». Per il riferimento anatomico e per la personificazione, comicamente solenne, dell’organo maschile cantà la wàllere potrebbe essere avvicinato al napoletano cogliune mie sunate a gloria! (testicoli miei suonate a gloria!), un’esclamazione che viene naturale alla bocca, magari accompagnata da un adeguato gesto d’ambo le mani, le volte che si sente qualcuno, affetto da mania di magnitudo, spararle grosse, insopportabilmente grosse: con tutti gli esaltati che oggi più che mai imperversano, non sappiamo voi, ma il nostro è un concerto continuo … di campane.
Il proverbio citato dal Magliocca a p. 53 (n. 470): gli’ àsene porte la paglie e gli’ àsene se la magne (l’asino porta la paglia e l’asino se la mangia) ci sta particolarmente a cuore, perché ci ravviva il dolce ricordo della nostra nonna materna Rosa, la sola dei nostri quattro nonni che abbiamo conosciuto vivente, ‘na capatosta santantemara. Quando, ragazzini, con le nostre sorelle Ida e Cecilia, ci si recava da Gaeta ad Aversa per farle visita, era nostro costume portarle in dono una scatola di biscotti o cioccolatini; e nostra nonna, mentre con le mani tremanti per gli anni e per i nove figli generati e allevati apriva la scatola per dispensarcene le delizie, non tralasciava mai di declamarci: l’asino porta ‘a paglia e l’asino s’arraglia =«l’asino porta la paglia e l’asino se la raglia». Si noterà che la versione napoletana del proverbio, rispetto al gaetano se la magne, esibisce la variante s’arraglia, a nostro parere preferibile, non solo per l’efficace assonanza di rima: paglia | arraglia, ma anche per l’anomalo uso transitivo di questo verbo nel senso pregnante di «mangiare ragliando»: è ragliando a chiara voce che l’asino manifesta la piena soddisfazione per il gradito pasto (ad onta del proverbio italiano: l’asino più raglia e meno mangia).
Per contro, sembra anche a noi più espressivo il gaetano la sarde fete dalla cape (la sarda puzza dalla testa), a fronte del generico pesce, non solo perché la sarda è più aderente alla realtà locale, facendo parte «del commercio, dell’economia, del costume alimentare del popolo gaetano» (Magliocca p. 8), ma anche perché la sarda, per il suo caratteristico e intenso odore, sembra, fra tutti i pesci, particolarmente adatta a rappresentare il senso del proverbio.
Per conferire incisività al pensiero e agevolarne la memorizzazione, gli anonimi autori di questi aforismi facevano largo uso di figure retoriche di ogni genere, di ritmo (allitterazioni, onomatopee …, come già si è avuto modo, qua e là, di osservare), di significato e di pensiero, spesso in combinazione tra loro. Ne riferiremo alcuni esempi, in cui l’effetto pare che sia piuttosto ricercato che casuale o spontaneo, sufficienti per illustrare il pregio stilistico di questi detti e la perizia tecnica di chi li creò.
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L’espressione gliu mare è mare (M. p. 58, n. 541) non è una tautologia di J. de la Palice, ma un sottile bisticcio, ottenuto giocando con il doppio significato di mare, prima nome e poi aggettivo («amaro»), a richiamare, come sembra, la dura condizione di chi, quotidianamente, affida al mare la propria esistenza. Il gioco di parole si trova in Stazio, silvae II 2, 18 s. e terris occurrit dulcis amaro | nympha mari («da terra un corso d’acqua dolce corre nel mare salato»), ma qui amaro, antiteticamente giustapposto a dulcis, è usato in senso meramente fisico.
Lo stesso gioco tra nome e aggettivo omografi ritorna nel proverbio (M. p. 65, n. 621): la corte è corte e puó se fa longhe =«la corte (la giustizia) è corta e poi si fa lunga». Altre espressioni di questo tipo sono: (M. p. 64, n. 615) la case a doi porte (nome) gliu diàveĝlie se la porte (verbo): «la casa a due porte il diavolo se la porta» e (M. p. 76, n. 771) lu case (maschile) arruine la case (femminile):«il formaggio rovina la casa».
Ecco invece alcuni brillanti esempi di giochi di assonanza con effetto di paronomasia: (M. p. 89, n. 933) nove mise, nove vise (nove mesi, nove visi); (M. p. 89, n. 930): n’occe quante e gliu nase fa ùtele alla case (una quantità piccola come il naso riesce di utilità alla casa); (M. p. 65, n. 620): la collere è fatte a cuoppe, chi la piglie schiatte ʼn cuorpe (la collera è fatta a cartoccio, chi la prende crepa dentro di sé); (M. p. 112, n. 1180): so cchiù vuce che nuce =«sono più voci (dicerie) che noci (fatti)»; (M. p. 177, n. 1603): facisse na secce e la facisse socce!=«facessi una seppia e la facessi buona!» (qui l’annominazione è fatta risaltare dall’anafora del verbo); (M. p. 112, n. 1177) sierve ca serve (conserva perché può servire).
Invece l’originale locuzione (M. p. 175, n. 1588): fà Bacche e bocche (fare Bacco e bocca, ossia bere e mangiare) sfrutta dapprima la metonimia (Bacche=il dio per il vino) e poi la sineddoche (bocche=l’organo per la funzione) per ricreare artificiosamente, anche nel suono, l’immagine viva di chi, abbuffandosi, dimena le ganasce.
Ancora il proverbio (M. p. 59, n. 548): gliu munne gl’ha sapé ammunnà=«il mondo devi saperlo sbucciare (affrontare)» esibisce una falsa figura etymologica, in quanto che il denominativo ammunnà=«mondare» deriva da munne aggettivo («mondo, sbucciato») e non da munne nome («il mondo, la terra con i suoi abitanti»).
Analogamente la locuzione gaetana (M. p. 193, n. 1704): feté la fatìe (puzzare il lavoro), attraverso la modifica della vocale radicale del verbo e del nome, d’etimo diverso, presenta un falso gioco apofonico, che si ripete nel proverbio (M. p. 66, n. 643): la fatìe si chiame fète=«il lavoro si chiama puzza (e per questo a molti non piace)».
Un altro modo di dire, prettamente gaetano, (M. p. 249, n. 2021): o Marche piglie a Turche o Turche piglie a Marche si giova dell’antonomasia, dell’assonanza (Marche | Turche) e dell’anafora (del verbo) per costruire un’efficace (e storica)[26] antimetabolé. Se poi si considera l’enfasi del verbo piglià (dal lat. pilare), e si riferisce la frase a uno solo dei due soggetti, nel modo seguente: i Veneziani o prendono i Turchi o sono presi dai Turchi, questa espressione risulterà vicinissima a quella del satyricon di Petronio (116) aut captantur aut captant (lett. «o sono presi o prendono»), riferita alle due sole categorie di uomini, gli imbrogliati e gli imbroglioni (captare, intensivo di capere, propriamente vale «prendere con accortezza»), in cui sono divisi gli abitanti di Crotone, ma, si direbbe meglio, in cui si dividono tutti gli uomini[27].
Il nome Marche ritorna, anche se come deformazione volgare del dotto Malco, in un’altra locuzione gaetana (M. p. 243, n. 1988): ne’ taglie manche la recchie a Marche=«non taglia nemmeno l’orecchio a Marco (si dice di un coltello che taglia poco o nulla)», che ci fornisce un chiaro esempio di iperbole per difetto: è noto, infatti, che Pietro, per tagliare l’orecchio del servo Malco, si servì di una spada e non di un coltello (Giovanni 18, 10 s.).
Capita quasi tutti i giorni, infine, di chiedere ai fruttivendoli di Gaeta nu pere de nzalate (M. p. 258, n. 2066); ebbene questo modo di dire si basa su una comune e antica sineddoche[28], equivalendo pere a piante (il tutto per la parte); senonché, nello sviluppo logico dell’immagine, il significato di pianta è slittato da quello di «pianta del piede» a quello di «pianta, cespo».
Due volte, in questo libro, il Magliocca cita Giovenale[29], la prima per annotare che il proverbio (p. 74, n. 743) la vicchiaje è na brutta bestie richiama l’espressione di sat. 11, 65: morte magis metuenda senectus (la vecchiaia è da temersi più della morte)[30], e la seconda volta per rilevare (p. 148, n. 1428) che l’immagine della cagline bianche (gallina bianca) ripete gallinae filius albae (figlio della gallina bianca) di sat. 13, 141[31]. A noi sembra che anche il proverbio (M. p. 82, n. 847): mia legge, mia spade, mia raggione=«mia legge, mia spada, mia ragione». (Il potente fa valere sempre le sue ragioni)» riecheggi, nella movenza logica e nella cadenza ritmica, un’altra celebre espressione di questo poeta (sat. 6, 223): hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas=«questo voglio, così comando, valga per la ragione la volontà».
A riguardo poi del vernacolo gaetano: piglià la quarte abbiente, che significa «appropriarsi di qualche cosa ai danni dei cointeressati», il Magliocca (p. 260, n. 2077) ci apprende che «la quarte, secondo gli Statuti gaetani, era la dote che il marito donava alla moglie dopo aver consumato il matrimonio: si denominava “il bacio del mattino” (lucrum primi osculi inter coniuges) oppure “basatico” ed era un residuo delle vecchie leggi longobarde, fissate da Liutprando». Orbene, dell’antichità di tale uso ci dà testimonianza lo stesso Giovenale nella satira VI (vv. 202-205): nec est quare … perdas | ... illud | quod prima nocte datur, cum lance beata | Dacicus et scripto radiat Germanicus auro=«non si vede motivo alcuno che tu ci perda … il dono che viene dato quale ricompensa per la prima notte, quando sulla ciotola ricca brillano un Dacico e un Germanico, per l’oro inciso»[32].
Invece il proverbio riportato a p. 115 (n. 1208) tante tié e tante vale =«tanto tieni (possiedi) e tanto vali» potrebbe riprodurre Orazio (sat. I 1, 62) quia tanti quantum habeas sis: «poiché quanto hai tanto vali»; in realtà – da Lucilio a Orazio, da Petronio[33] e Seneca[34] allo stesso Giovenale[35] e S. Agostino[36] – trattasi di una riflessione, tra le più amare e più vere, della sapienza popolare di tutti i tempi, specie di questi nostri, in cui non solo il valore della persona, ma la stessa durata della vita si misura in beni materiali, quelli che si lasciano alla morte: quanto è vissuto il tale? È vissuto due quartini, tre automobili, una barca a motore e un milione di euro: e puteva campa’ ʼn atu poco!
Notevole per l’elaborazione artistica è il proverbio (M. p. 86, n. 892): né fémmene e né tele a ĝliume de cannele=«né donne e né tele (si guardano) a lume di candela», sia sul piano della forma, con l’anafora (né … né), il pleonasmo (e), l’assonanza (fémmene | ĝliume) e l’omeoteleuto (tele | cannele), sia sul piano logico, per l’espressiva ellissi del verbo, e per la formulazione litotica del pensiero, più efficace rispetto al positivo: e le donne e le tele (si guardano) alla luce del giorno. La ragione di un tale divieto è evidente: a guardare le donne e le tele alla luce artificiale c’è il rischio di non avvedersi dei difetti fisici di quelle e delle impurità di queste, e quindi di restar fregati. Si faccia come Paride, il quale, chiamato ad eleggere la più bella tra Giunone, Minerva e Venere, come rimarca Ovidio (ars I 247 s.): luce deas caeloque …spectavit aperto,| cum dixit Veneri «Vincis utramque, Venus»=«in piena luce, sotto l’aperto cielo … contemplò la bellezza delle dee, quando a Venere disse: “Tu, o Venere, vinci l’una e l’altra”»; infatti, nocte latent mendae vitioque ignoscitur omni, | horaque formosam quamlibet illa facit =«di notte si occultano i difetti, si indulge a ogni neo e quello scorcio di tempo rende bella qualsiasi donna», continua il poeta, fino a prescrivere: consule de gemmis, de tincta murice lana, | consule de facie corporibusque diem: «affidati alla luce del sole, se vuoi giudicare sia le pietre preziose e la lana tinta di porpora, sia i volti e i corpi»[37]. A noi non sembra irragionevole ipotizzare che proprio da quest’ultimo distico abbia tratto ispirazione l’antico inventore del nostro proverbio, il quale, opportunamente, tralasciò le gemme e sostituì le tele (di lino o canapa) alla porpora[38]: la gente povera e semplice a cui si rivolge l’adagio non conosceva lo sfarzo[39].
Tutti conoscono invece il detto popolare: Giacchine ha misse la legge e Giacchine è muorte accise (Gioacchino ha fatto la legge e Gioacchino è morto ucciso). Il personaggio storico a cui si allude qui antonomasticamente col solo nome è Gioacchino Murat, re di Napoli, il quale, chiosa il Magliocca (pp. 51 s., n. 457), «fu condannato a morte in base ad una legge da lui stesso emanata»[40]. Sicuramente Ovidio avrebbe approvato un tale contrappasso, in quanto teorizzatore del principio secondo il quale «nessuna legge è più equa di quella per cui gli inventori di morte periscano per la loro invenzione» (ars I 653 s.)[41], principio scaturito dalla considerazione degli esempi di Trasio[42] e Perillo[43], riferiti ai precedenti vv. 645-652.
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Ci piace concludere con una divagazione, suggeritaci dal seguente epigramma di Marziale[44] (III 57): callidus inposuit nuper mi copo Ravennae:| cum peterem mixtum, vendidit ille merum: «un oste ravennate | l’altro giorno m’ha imbrogliato: | mi vende vino puro, | lo volevo annacquato»[45]. Dunque il poeta, a Ravenna, ha chiesto a un oste del vino annacquato (così i Romani usavano bere il vino), e quel furbo gli ha dato invece del vino … genuino (di solito avviene il contrario, che si chiede vino schietto, e da un vinaio disonesto si riceve vino annacquato)[46]. Come si spiega una tale stranezza? Col fatto che in quella città l’acqua costava molto più del vino, tanto che lo stesso Marziale, nell’epigramma precedente a questo, asserisce che lui, a Ravenna, preferirebbe possedere una cisterna, piuttosto che una vigna, potendo vendere l’acqua molto più cara del vino. Ovviamente questo non ha nulla che vedere con i proverbi e i modi di dire del popolo gaetano; ha che vedere, però, con Nicola Magliocca in persona, il quale, nel corso di un soggiorno a Chianciano, in data 7 luglio 1952, tra le altre cose annotava[47]: «Si crede … che a Chianciano, luogo delle acque, non abbia diritto di cittadinanza il vino. Non è vero! Nell’ultimo negozio di viale Roma si è installata una mescita di vini di Montepulciano. Clienti ne trova molti? Non sappiamo dirlo. Però ce ne vediamo sempre tutte le volte che passiamo di lì. Saranno dei buontemponi che, avendo fatto la mattina la cura dell’acqua, la sera fanno quella del vino. È una cura integrativa, insomma una cura che non fa certo male, tanto più che rispetto all’acqua – ci credereste? – costa molto di meno. Una cura che si dovrebbe fare a dispetto dell’acqua, che te la fanno pagare a 350 lire il bicchiere. “Evviva il vino di Montepulciano che costa solo 35 lire!”». Vero è che Chianciano (Toscana) è ben distante da Ravenna (Emilia-Romagna), ma a noi premeva solo mettere in luce, attraverso il parallelo con l’epigrammatista latino, la sottile ed operosa arguzia di Nicola Magliocca.
Ci fermiamo qui, è suonata l’ora di pranzo. Che cosa abbiamo di buono? Un bàine de fasuĝlie strascenate e un piattino di picchiácchiere e fogliamuoglie, con due bicchieri di chiarenza: siamo o non siamo di Porta di Terra, parrocchia di San Biagio, protettore della gola? E «Santu Biàzie – come recita il proverbio (M. p. 107, n. 1121) – è rumaste a Porte de Terre».
NOTE
[1] È la seconda edizione, del 1992, quella che abbiamo sott’occhio.
[2] Sono appunto l’intelletto e il cuore le doti bibliche del MAGLIOCCA richiamate dal prof. Erasmo VAUDO nella presentazione del volume: Il senso della vita (p. 7), una raccolta antologica degli scritti civili, editi e inediti, del MAGLIOCCA, pubblicata a Gaeta, in grazia dell’amorevole riguardo della moglie e delle figlie, nel 2004, tre anni dopo la sua scomparsa, avvenuta il 15 agosto del 2001: il libro, per il valore intrinseco e per la straordinaria personalità dell’Autore, meriterebbe di essere letto e meditato da ogni cittadino di Gaeta.
[3] Al totale di 2447 espressioni si devono aggiungere i nn. 794a, 875a, 1862a, 2074a, 2247a.
[4] Senza soffermarci sulle caratteristiche e sulla rilevanza di quest’opera fondamentale, ricorderemo solo che il MAGLIOCCA la dedicò ai suoi concittadini, a ulteriore dimostrazione del suo commovente amore per questa città; una città in cui non si direbbe che alligni il detto ciceroniano (Tusculanae I 4): honos alit artes («l’onore alimenta le arti»), sembrando i suoi abitanti inclini a dar riconoscimento a questo, a quello e a chi altro più che ai veri artisti, e inadeguata è per noi l’intitolazione a Nicola MAGLIOCCA del solo Archivio Storico del Comune di Gaeta: quanti lo sanno o hanno occasione di visitare questo Archivio?
[5] A questi aggiungeremmo anche Fedro III 74, 26: illius interesse ne faciat moram=«è suo interesse non indugiare».
[6] Ci limiteremo ai soli esempi di fà le verte, che il MAGLIOCCA (p. 185, n. 1650) fa risalire a vertere in, espressione propria della metamorfosi; al termine foche (M. p. 227, n. 1898): mette la foche ‘n canne=«mettere la foche alla gola», che si fa derivare da focale (da fauces=«fauci, gola»), che era una fascia da collo per i malati e i soldati, e, in ultimo, alla locuzione ‘n zine (M. p. 248, n. 2017), che è pari al lat. in sinu. Non sarà che alla lista debba aggiungersi anche il vocabolo tope, con cui, ci informa il MAGLIOCCA (p. 307, n. 2361), si indica la «buccina, grossa conchiglia conica di tritone che … emette un suono assai cupo»? Secondo noi, ma anche questa è una pura suggestione uditiva, tope, potrebbe corrispondere a tuba (per la modifica della vocale radicale cf. il gaetano còttere per cutter, mentre per lo scambio b/p cf. il gaetano Bullacche per Polacco, e Serbe=«Serapo»: soprattutto cf. il gaetano vorbe=«volpe» da vulpis), ossia la tromba che nell’antica Roma dava all’esercito il segnale di partenza per la guerra.
[7] Differenziati anche nel proverbio (M. p. 95, n. 996): perciò gliu poverieglie è pezzente, pecché va pe la vie e rasteme glie Sante (il povero è pezzente perché va per la via e bestemmia i Santi).
[8] Cf. Seneca, epistolae 87,39 paupertas … est non quae pauca possidet, sed quae multa non possidet =«la povertà consiste non già nel possedere poche cose, ma nel non possederne molte».
[9] Cf. anche Petronio, satyricon 125 nempe rursus fugiendum erit, et tandem expugnata paupertas nova mendicitate revocanda=«Perdiana, ci toccherà darcela a gambe e ripigliare a vivere d’espedienti dopo esserci staccata di dosso la miseria» (trad. di Luca CANALI, Petronio Arbitro. Satyricon, Milano 19864, p. 373).
[10] Dal lat. apprimo=ad+premo: cf., p. es., Tacito, annales II 21, 1 scutum pectori adpressum (lo scudo attaccato al petto).
[11] Per questo cf. il francese tout casse, tout passe, tout lasse, et tout se remplace=«tutto si rompe, tutto passa, tutto stanca, e tutto si sostituisce».
[12] Dal lat. laxare=«allargare», il cui contrario è artare=«stringere».
[13] È la bella Atalanta, che nelle gare di corsa vinceva tutti i suoi pretendenti, che poi venivano messi a morte.
[14] Trattasi di Ippomene, che, con l’aiuto di Venere, riuscirà a vincere e sposare la fatale fanciulla.
[15] La trad. è di Piero BERNARDINI MARZOLLA, Publio Ovidio Nasone. Metamorfosi, Torino 19942, p. 419.
[16] La trad., come le altre dell’ars che seguiranno, è di Enrico ODDONE, Ovidio. L’arte di amare, Milano 19943, p. 87.
[17] Per questo tipo di ellissi logica cf. il modo di dire: i diche ca piove … :«io dico che piove …» da completare con «ma tu fai venì le pisciarelle» (ma tu fai venire l’acqua a catinelle): MAGLIOCCA, p. 205, n. 1769.
[18] Danaos per Graecos (così già in Omero), qui è carico di disprezzo: Danao, capostipite del popolo greco, costrinse le 50 figlie (solo Ipermestra non gli obbedì) a uccidere, la stessa notte delle nozze, i rispettivi mariti e cugini, figli del re Egizio.
[19] Ce ne dà autorevole testimonianza Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury (sec. XII), in epp. ad Alexandrum Papam 24 (Migne CXC. 473D): sed proverbium est, timeri Danaos et dona ferentes.
[20] Terenzio, Andria 194.
[21] Trattasi, come dai più si ritiene, del pozzo. Apollo è evocato qui come dio della profezia, col santuario a Delfi.
[22] I due re sono Aiace e Giacinto, che è anche il fiore dell’indovinello (la trasformazione è narrata da Ovidio nelle metamorfosi: X 162-219). Invece Fillide è la fanciulla amata da Menalca.
[23] Indicando nell’uomo l’essere che prima (quando è bambino) cammina con quattro gambe, poi (quando è adulto) con due, e in ultimo (quando è vecchio col bastone) con tre.
[24] Riferiamo testualmente da “La settimana enigmistica”: tra le nostre carte abbiamo ritrovato il solo numero di rubrica (65304) di questa spigolatura.
[25] Cf., p. es., Quintiliano, declamationes maiores III 54,13 cum alii excubent armati, alii … cibum ipsum stantes capiant, tribunus inter scorta volutabitur … ? =«mentre alcuni (soldati) bivaccano in armi, altri … persino il rancio consumano in piedi, un tribuno si rotolerà tra le meritrici … ?».
[26] Il MAGLIOCCA non tralascia mai di illustrare l’impegno storico di questi modi di dire.
[27] «In questa città – continua Petronio – si entra come in un campo ammorbato dalla peste, dove non c’è altro che cadaveri spolpati, o corvi che li spolpano».
[28] Chi non ricorda l’oraziano (carm. I 37,1 s.) nunc pede …| pulsanda tellus =«ora si deve battere la terra con i piedi»?
[29] Il satirista romano del I-II sec. d. C., originario probabilmente di Aquino, noto, oltre che per il rigorismo morale, per la sentenziosità del suo stile: sarà sempre il caso di ricordare una delle sue più celebri e toccanti sententiae: maxima debetur puero reverentia=«al fanciullo si deve il massimo rispetto».
[30] Riferita, appropriatamente, allo scialacquatore, il quale, essendo vissuto nel lusso, in vecchiaia dovrà mendicare (per questo teme quell’età più della morte).
[31] Il proverbio, tagliato apposta per i fortunati e i privilegiati di ogni tempo, si spiega perché le galline bianche, «di buon auspicio, erano riservate all’imperatore per pratiche religiose e sacrifici» (Giovanni VIANSINO, Giovenale. Satire, Milano 2010 rist., p. 483).
[32] La trad. è del VIANSINO (ediz. cit.), il quale (p. 263) annota: «”dono del mattino”, dopo la prima notte di nozze (monete d’oro su una ciotola preziosa, coniate in onore delle vittorie di Traiano su Daci e Germani: a. 97-102 d.C.)».
[33] Sat. 77,6 assem habeas, assem valeas; habes, habeberis=«hai un asse, vali un asse; hai quattrini, sarai stimato».
[34] Epistolae 115, 14 (traduzione di lirici greci) an dives omnes quaerimus, nemo an bonus. | Non quare et unde, quid habeas tantum rogant. | Ubique tanti quisque, quantum habuit, fuit=«tutti vogliamo sapere se uno è ricco, nessuno se è onesto. | Si chiede solo quali siano i suoi possessi, e non già perché e come li ha ottenuti. | Da per tutto l’uomo vale quanto possiede» (la trad. è di Giuseppe MONTI, Lucio Anneo Seneca. Lettere a Lucilio, II, Milano 1985, p. 979).
[35] Sat. 3, 143 s. quantum quisque sua nummorum servat in arca, | tantum habet et fidei =«quanti soldi ciascuno conserva nel suo forziere, | tanta fiducia anche riscuote» (la trad. è del VIANSINO, p. 121).
[36] De disciplina Christiana 11, 12 unde et illud proverbium “quantum habebis tantum eris”= «da qui anche il proverbio: “quanto avrai tanto varrai”».
[37] Per questa ragione Ovidio, nel libro III dell’ars, dedicato alla donna, raccomanda a questa (vv. 751 ss.) di arrivare sempre tardi a un banchetto, e quando già si sono accese le lampade; in tal modo «anche se sarai bruttina, agli uomini che han già bevuto apparirai seducente e sarà proprio l’oscurità notturna a concedere nascondiglio ai tuoi difetti fisici».
[38] Come annota l’ODDONE (ediz. cit.,p. 140), «c’era pure una falsa porpora delle lane, non certo quella di Tiro o Fenicia molto preziosa, bensì quella casalinga, a buon mercato, di Aquino … L’inesperto, o qualcuno tradito dalla scarsa luce, potevano acquistare questa per quella». Per chi si recava al mercato a tarda ora l’oscurità era un’insidia, come ci attesta Petronio (sat. 12,1: la trad. è di Luca CANALI, ediz. cit. , p. 127):«Giungemmo al mercato verso sera. C’era una gran quantità di roba in vendita: non molto preziosa, a dire il vero, ma che, a ogni modo, poteva tener facilmente nascosta, nell’oscurità dell’ora, la sua provenienza sospetta».
[39] Come il Trimalchione dello stesso Petronio (sat. 28,2), il quale, tutto cosparso di unguenti, si faceva asciugare non linteis, sed palliis ex lana mollissima factis =«noncon tela comune, ma con panni di morbidissima lana» (trad. di L. CANALI, ediz. cit., p. 151).
[40] Così già Licinio Stolone, promotore nel 367 a.C. di una legge che fissava a 500 iugeri il limite massimo del latifondo, fu condannato lui stesso in base alla sua legge: et ipso sua lege damnato (Plinio, naturalis historia XVIII 17).
[41] Cf. anche Fedro I 27,1 s. si quis … laeserit, | multandum simili iure fabella admonet=«la favoletta insegna che chi fa male deve essere punito per la sua stessa legge».
[42] Essendo l’Egitto afflitto da una grave siccità che durava da nove anni, Trasio, un indovino di Cipro, si presentò al re Busiride e gli rivelò che Giove poteva essere placato, se si spargeva il sangue di uno straniero. E Busiride: «Sarai per primo tu la vittima pretesa da Giove – gli disse – , tu, quale straniero, procurerai piogge all’Egitto».
[43] Costruì per Falaride un toro di bronzo, in cui le vittime di quel tiranno venivano bruciate vive a fuoco lento, sì che le loro grida strazianti risuonassero come i muggiti del toro; ma fu proprio lui, Perillo, a inaugurare il suo orrendo strumento di tortura (cf. Ovidio, tristia III 11, 39 ss. e V 1, 53 s.; Ibis 437 s.).
[44] Il poeta latino nativo di Bilbilis (Spagna Tarragonese), amico e collega … di fame di Giovenale.
[45] La trad. è di Guido CERONETTI, Marco Valerio Marziale. Epigrammi, Torino 1979 rist., p. 203.
[46] Quello che nell’idioma gaetano si definisce miezu vine, «mezzo vino, detto anche acquate»: MAGLIOCCA, p. 232 (n. 1928).
[47] Il senso della vita, cit., p. 336.