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MUSEO DEL MARE DI GAETA - VIA ANNUNZIATA,59 - PALAZZO DELLA CULTURA

MUSEO DEL MARE DI GAETA - VIA ANNUNZIATA,59 - PALAZZO DELLA CULTURA

INVITO A SALIRE A BORDO

Un viaggio nella marineria gaetana, tra millenni di storia, attraverso grandi riproduzioni delle navi piu' famose che hanno segnato la storia marinara e culturale di Gaeta.

Un percorso tra ricordi, documenti storici e fotografici, brani tratti tra i piu' grandi testi di autori della letteratura classica e italiana.

Una grande esposizione di materiali ed attrezzature inerenti la cantieristica navale, la navigazione, la marineria e la pesca.

Infine, un piccolo laboratorio di nodi, dove i piccoli naviganti potranno cimentarsi nella realizzazione di nodi marinari ed ottenere "Il Diploma di piccolo Marinaio".

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Info: ASSOCIAZIONE CULTURALE GAETA E IL MARE- www.gaetaeilmare.info - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Campagna dell'Esercito Napolitano dal 1 ottobre 1860 fino al cominciamento dell'assedio di Gaeta narrata da un testimone oculare

CAMPAGNA DELL'ESERCITO NAPOLETANO
Guerra si faccia almeno
Alta e gentil di prodi!
Che la inimica sciabola
Anche il giacente lodi!
 
 
Dal Generale Ritucci Comandante in capo l'Esercito di Operazioni, e da taluni uffiziali superiori dello Stato Maggiore stabilivasi, pel primo giorno di ottobre, il piano generale d'un grande attacco, da praticarsi simultaneamente a S. Angelo, S. Maria, e Maddaloni.
Una divisione avente a capo il Generale de Rivera (Gaetano) sarebbe mossa contro S. Angelo, — un'altra comandata dal Generale Colonna avrebbe attaccato S. Maria, — e la brigata estera col Generale de Mechel, sarebbe all'improvviso piombata a Maddaloni.
Verso le 3 della notte, la prima divisione, con due batterie di montagna ed una da campo, nelle due brigate di Barbalunga e Polizzy, usciva per le poterne della Piazza: — quella destinata contro S. Maria, e con due batterie da campo, sortiva per la porta principale, — ordinavasi fuori Capua, — e disponevasi all'attacco.
Al far del giorno la divisione del Generale de Rivera trovavasi in marcia, — e poco appresso impegnava il fuoco con l'inimico, che occupava S. Angelo, e le posizioni circostanti — Fortemente bersagliata dalle ben dirette artiglierie contrarie, progrediva molto lentamente, e verso l'una (p. m.) rendevasi padrone della prima posizione inferiore al paese, dove inchiodava cinque pezzi; e, poiché le forze attaccanti erano state insufficienti a vincere la prima resistenza, per quell'ora e sostegni e riserve si trovavano già impegnate.
Nonpertanto i Garibaldini spiegavano maggior coraggio ed energia, e si aumentavano dismisuratamente in numero: talché quasi impossibile si rendeva ai regi più oltre avanzarsi, e solo una mano più ardita azzardava di penetrare nell'infelice paese, e sotto gl'incessanti fuochi dello inimico che riducevasi sulla cresta del monte, di dove fulminava più terribilmente.
Speravano gli aggressori che dei rinforzi fossero giunti a decidere la giornata- in loro favore, e restavano colà ed in quella guisa, fino alla sera. Ma i desiderati soccorsi non giunsero mai, perché il Comandante in capo aveva avuto l'imprevidenza di stabilir picciole riserve, e farle impegnare prima del tempo. Per cui quelle truppe stanche ed affamate si ritiravano calcando un campo di cadaveri, e nuotanti fra sangue infruttuosamente versato!
La divisione di S. Maria ancor fin dall'alba avanzata si era, ma molto inadattamente alla circostanza.
Erasi male istudiato, e precisato il punto d'attacco, e lungi dal prendere la località di fianco o di rovescio, — lungi dall'essersi praticate delle accurate ricognizioni , onde conoscere il terreno teatro del combattimento, ed in quel caso, la specie di trasformazione fatta subire al paese, nonché  l'estensione ed il potere difensivo del posto, nonché la forza e la disposizione dei difensori; — quella truppa quasi ciecamante mosse prendendo di fronte il paese, bene fortificato, e guernito di ottime artiglierie, ed ancora più messe in ordine profondo, —  facendo poi inoltrare molto le due batterie da campo, che lungi dal prendere posizione e mitragliare l'inimico, tratteneva noi sulla strada nuova presa d'infilata dalle artiglierie nemiche, situate sugli archi semidiruti che sono poco prima di accedere nel paese, e per cui un giovane uffiziale, non appena cominciava l'azione, prima vittima restava di quell'inconsideratezza!
Santa Maria era stata molto fortificata, ed era difesa da giovani valorosi, da giovani che combattevano unicamente per un principio, — per un principio, che, coltivai dal cuor giovanile, entusiasma cosi la mente, che per quel principio in sull'ara s'immolarono sempremai vittime venerande!
Suill'istessa strada di Santa Maria stava il Generale Ritucci col suo Stato Maggiore, di dove emanava gli ordini, e regolava superiormente puranche l'attacco di S. Angelo.
Il Re istesso trovavasi nel campo dove disponeva ed incoraggiava i suoi, i quali alfine mossero, — e quando si furono innoltrati sotto la portata delle artiglierie nemiche, accorgendosi del male che cagionava loro l'erronea disposizione, prestamente fecersi a disporre in ordine spiegato, distaccando dalle colonne di attacco le particolari riserve; e con molto ardimento si avanzarono e tentarono l'assalto. — E già avevano superato gli ostacoli addizionali del terreno esteriore — già l'attacco addiveniva solenne, e tardar non poteva ad essere deciso già di sangue fumava il campo in cui disperatamente pugnavano i Regi, circondati dalla morte — morte era sulle inimiche batterie, morte sotto le tremanti e bersagliate mura di Santa Maria — strage angosciosa e morte dovunque. — Eccidio spaventevole... desolante squallore!
I fuochi nemici eransi alquanto affievoliti: un'ultima resistenza a superar restava, un ultimo sforzo, ed il giglio Borbonico sarebbe riapparso minaccioso sui tetti di Santa Maria, e Francesco II avrebbe forse riacquistato il trono di Napoli! Ma, quell'ultima resistenza non fu superata, quell'ultimo sforzo non si fece ed i Regi, stanchi e scoraggiati, davansi celeramente a ripiegare; mentre il Genio della Libertà sulle batterie nemiche riaccendeva gli animi, ed animava i fuochi, che immediatamente riprendevano la loro intensità.
Nonostante, l'attacco, meno vigorosamente, seguitava fino a sera, in cui giunsero, a mal tempo, poche altre centinaia di uomini, coi quali si ebbe l'audacia di ritentare l'assalto, e taluni penetravano pei dettoli fianchi fin dentro Santa Maria; ma la sorte, che poche ore innanzi arrider voleva ai Regi, indispettita forse, riprendeva a sera il suo malefico influsso, e quella truppa, stanca moltissimo e poco ordinata, si ritraeva, avendo spesp e valore e sangue infruttuosamente.
Ed in quel giorno i Regi, fra l'uno e l'altro attacco riportavano fra morti e feriti non meno di 2000 uomini. Ed ahi! Quanto coraggio, quanto Italiano valore non spiegò in quel giorno da ambo le parti: l'istesso declinante sole a l'ingiusta strage par che accelerato avesse il suo tramonto... e  declinando lasciava alla notte la pietosa cura di covrire col suo manto quel lagrimevole eccidio!
La brigata estera che avrebbe dovuto in quel giorno medesimo attaccare i Garibaldini a Maddaloni, a cui appoggiavano l'ala sinistra, per imprevidenza del Generale Comandante, lungi da trovarsi colà il primo ottobre; vi giungeva il giorno seguente; e e stolidamente commenteva l'altro errore d'impegnar fuoco vivissimo ai Ponti della Valle, che trovava ben fortificati e gagliardamente difesi, e che sostenavasi energicamente dall'inimico, il quale aveva avuto e l'agio e l'accorgimento di concentrare in quel punto la piupparte delle forze che il giorno avanti si trovavano altramenti divise, e sperperate. — Di guisachè gli esteri, dopo lievi vantaggi, ed una fiera carneficina, in cui il Generale de Mechel perdeva il proprio figlie, eseguivano la ritirata.
Dopo l'attacco del primo ottobre, e dopo di essersi commesso dai Regi il grave errore di non attaccare novellamente nei seguenti giorni, preser quelle truppe un'atteggiamento tuttaffatto difensivo: imperocché il Re opinava non doversi in altra guisa praticare, ed attendere che il verno ancorapiù innoltrato si fosse, a grave danno e nocumento delle masse Garibaldine accampate sulla linea di Maddaloni e Capua.
Ma oh quanto vane si erano quelle speranze —  quanto inutili e perniciosi quei progetti! L'alba del giorno 21 fatale ispuntava, e lanciava fra il Volturno e Gaeta l'inatteso segnale di ben tristi giorni, sorgendo inesorabile a determinare la caduta della Borbonica Dinastia.
Subitamente la trista nuova si propagò fra i Regi di avere alle spalle l'esercito Piemontese forte di quarantamila uomini, dei quali la più parte erano stati valorosi ad Inkermann, si erano coronati di allori a Magenta e a Solferino, e che spedivasi dal Piemonte, senza veruna dichiarazione di guerra, onde tagliare la linea di operazioni del Napoletano Esercito — il quale, avvegnaché in forze non minori, nondimeno, avendo digià molto estesa la sua difesa, onde appoggiare le ali sulle piazze di Capua e di Gaeta, non poteva non paventare dell'inimico.
Sopraffatti i Regi da forte preoccupazione, già sentivano isbigottirsi per lo torrente che minacciava d'irrompere, e sentivano dileguar già molte concepite speranze, restando tuttavia ludibrio della sventura sempre lieta di perseguitarli.
Subentrata però la riflessione, e ridestato il militar coraggio, tutti egualmente si disposero a sostenere lo scontro ineguale, ed a pugnare contro coloro co' quali nei campi di Montanara e di Goito in fratellevole alleanza combattuto avevano per l'istessa causa, in tempi che sarebbero di troppo cara memoria, se un vile disinganno non li avesse barbaramente sepolti!
Si aumentarono quindi gli approvvigionamenti di Capua, si stabilirono le guarnigioni, e su tutta la linea fuvvi quel correre, quel lavorare alacramente, e quell'affaccendarsi, che suol precedere un attacco in cui vi è molta probabilità di restar perditore. SERAPO BB GAETA
E nulla trascuravasi difatti, e tutto praticavasi celeramente per la difesa; e la sera del giorno 21 il Re sollecitamente partir faceva da Gaeta tre uffiziali del Genio per la volta di Teano, onde fortificar quella porzione e poi le altre che credute si fossero indispensabili, nonché il quadrivio di Cajanello, per dove transitare dovea I'esercito Piemontese.
Allor trovavasi a Teano la Divisione del Generale Echaniz, che la mattina del giorno 22 occuopava le più importanti posizioni adiacenti al paese, mentre gli uffiziali del Genio decidevano delle fortificazioni a farsi, deliberando d'altra parte, non potersi il quadrivio di Cajanello rendere si forte da sostener quasi il primo impeto dell'inimico, ammenoché non si fosse preferito un combattimento in campo aperto — e questo: 
1. Perché quel quadrivio è nel centro di ben estesa pianura, dove sarebbe stato inutile lo innalzare delle fortificazioni di facile girata;
2. Perché la truppa colà trincerata avrebbe avuto sempre le spalle minacciate dalla parte di Roccamonfina;
3. Perché le forze che prima si trovavano isviluppate fra Capua e Gaeta — avrebbero dovuto ancorapiù isvilupparsi, onde estendersi fino a Cajanello.
Furono queste riflessioni approvate dal Comandante in Capo Generale Ritucci, che cionondimeno stabiliva pel momento a Cajanello la truppa che allor giungeva, e fatta distaccare dal corpo principale dell'esercito, per la difesa dei novelli punti.
E fecersi restare colà bivaccate tutto il giorno, la notte ripiegar facendole sopra Teano — dove con le altre colà stanziate si compose una colonna di circa 14,000 uomini.
Accrescevasi intanto il valor difensivo di Teano, dove tagliando una qualche strada, dove barricandone qualche altra e dove praticando ceppate, e tagliate d'alberi, ed altra sorta di ostacoli addizionali. — Però il giorno 23 trascorrevasi dal comando in capo fra perniciose ricognizioni, ed inutilissime discussioni, di guisaché, se quel giorno un'ardita mano di soldati nemici fosse da Roccamonfina improvvisamente piombata in Teano, narebbe fatto abbassarle suo mal grado le armi.
Né valsero del Solerte Generale Negri le premure per cui ad esporre facevasi il Generale Ritucci il gran periglio, e il danno che avrebbe potuto provenirne da quel tempo inadattamente impiagato, e dalla inutilità di quella stazione, perché, alle instanze del primo, rispondeva il Generale Ritucci con la sua solita freddezza.
Finalmente il giorno 24 quella truppa ripiegar si fece sopra Cascano e Sessa; però il comando in capo dell'Esercito d'Operazioni, per volere Sovrano, assumevasi invece del Generale Salzano, che allor trovandosi al comando della piazza di Capua, veniva per tal ragione richiamato al Campo, mentre il Generale Ritucci recavasi a Gaeta, onde restare alla particolare immediatezza del Re.
E da quel tempo s'intercettarono tutte le le comunicazioni fra Capua e l'Esercito di Operazioni, la piazza isolandosi perfettamente.
E quel giorno medesimo gli uffiziali del Genio recavansi a fortificare le novelle posizioni — ed in ispecie le gole di Cascano dove s'intraprendeva la costruzione di tre batterie, che incrociar dovevano i loro fuochi al di là del viadotto della montagna spaccata, il quale sarebbesi domolito onde ritardare la marcia dell'inimico; ed altri lavori pur s'intraprendevano onde garantire le spalle dalla parte di Roccamonfina.
La truppa intanto eseguiva la ritirata, e la divisione del Generale Colonna, giungendo, disponevasi in prima linea, occupando le gole di Cascano: la brigata del Generale Polizzy,  secondo la nuova Strada costruita da Cascano a Teano stabilivasi, profittando dei paesi S. Marco, Rocci, S. Giuliano, Fontenelle, Carinola, e Casal di Carinola, e coronando di cacciatori le vicine colline. — Le restanti truppe occupavano Sessa e circonvicini, ed il quartier generale si stabiliva in un casamento poco lungi dalla locanda di S. Agata.
Per la notte del 25 i Regi si disponevano ad essere nuovamente attaccati.
Intanto l'inimico, sorpresa avendo e forzata ad Isernia la divisione del Generale Scotti, che trovavasi colà onde effettuare la esazione della fondiaria, facendo prigioniere il generale, — scendeva a Venafro, e rapidamente per la mattina del 25 si avvicinava a Teano, spiccando i suoi ultimi avamposti verso la taverna di Torricella e per la sera occupava Teano.
Quindi riordinavasi colà, e nelle ore di vespro del giorno 26 ad attaccar moveva i Regi sulle alture di S. Giuliano, fra Teano e Cascano — impegnando con la brigata Polizzy un fuoco vivissimo, la quale sostenuta veniva dalla batteria estera, e da una sezione della 4^ batteria da Campo, che inoltrandosi sulla strada giunsero a garantire la ritirata delle truppe sul Garigliano —  le quali non potevano più oltre sostenere le posizioni a cagione dell'imponenza dell'inimico, posizioni, che, sgombrato dai Regi, immantinenti occupate venivano dall'Esercito Piemontese, che per tutta la sera del 26 stabiliva a Sessa il suo quartier generale.
Giunte al Garigliano le Regie truppe, e trovandosi sulla sinistra riva in costruzione una gran testa di ponte, che in altra circostanza sarebbe riuscita vantaggiosa per la difesa, ed in quel caso riescir poteva invece nocevolissima, dovendosi occupar la riva destra — senza indugio cominciaronsi a demolire i lavori del semi-costrutto trinceramento: durante il quale tempo il Campo fu stabilito sulla riva sinistra del fiume, onde meglio eseguire quell'importante operazione.
II giorno 27 però trasferivasi sull'opposta riva, dove si collocavano di rincontro all'inimico non meno di 40 pezzi, dei quali 32 che facevano parte di quattro batterie da Campo, ed altri otto appartenenti ad una batteria da montagna.
Il quartier generale stabili vasi a Scauri, circa quattro miglia al disopra del Garigliano.
Intanto il corpo principale del nemico esercito, restando fra Sessa e Cascano, un'imponente avanguardia ad accampar si recava a circa 3,000 metri dalla riva sinistra del Garigliano, e la quale spingeva i suoi ultimi avamposti quasi fin sotto il fiume. B&B GAETA
Trascorse ancora il 28 ottobre, e la mattina del 29 già quelle paludi da molti anni lavate dell'umano sangue a raccorne in seno novellamente si disponevano: già quei Campi sol calcati dal solerte bifolco — sol tribolati dal duro aratro, addivenivano il teatro della guerra in cui la Sabauda croce abbatter voleva il Borbonico Giglio.
Tutto era silenzio, ed il Cupo aere annunziava quasi la lotta suprema, quando gli avamposti Piemontesi dettero il segno dell'attacco con alcuno fucilate, a cui seguivano immense scariche di una colonna di 8 a 10 mila uomini, che impavidamente avanzavasi verso il fatal Rubicone.
Il Comandante in capo dell'Esercito Regio non trovavasi colà, essendosi assentato per una ricognizione: il Generale Colonna assunse quindi il comando del Campo. Tacquero in sulle prime le Regie artiglierie, onde l'inimico ancora più apprestato si fosse, e quindi spiegarono in una volta i loro fuochi: fuochi infernali, fuochi che avrebbero fatto indietreggiare l'istesso esercito Francese, che dava l'assalto al ponte di Arcole difeso dalle artiglierie ungheresi.
Ma gl'Italiani soldati non la cedono punto ai Francesi, e l'Esercito Piemontese, sotto quella grandine di proiettili, lungi dallo sgomentarsi, coraggiosamente innoltravasi verso il ben difeso Garigliano. — E già quei prodi gli si facevano cosi dappresso, che sol pochi metri li dividevano dal ponte; quando la fanteria Borbonica ra- pidamente lor mosse incontro, obbligandoli a ritirarsi celeramente.
Cessava cosi quel breve ma fiero attacco — e nell'esercito Napolitano si deploravano, fra morti e feriti, solo due centinaia di uomini. Ma fra le vittime di quel combattimento atroce, vi fu il Generale Negri, meritamente Comandante in capo delle Regie artiglierie, che, colpito da due palle di moschetto , stramazzava sul ponte istesso — di dove gli artiglieri il recavano a Scauri ad esalare l'ultimo fiato!
Trascorreva il giorno 30 senza verune incidente — se non che verso sera si accorgevano i Regi che la squadra Piemontese — già molto lungi ancorata — situavasi più dappresso la costa di Scauri, e quasi in direzione della foce del Garigliano, la qual costa giaceva tutta quanta ndifesa, perché sotto la protezione della flotta Francese.
La sera del 31 pioveva dirottamente, ed il vento spirava impetuoso; e, mentre i Regi nel Campo cercavano di mitigare la durezza del verno, e se ne stavano alla spensierata, udirono dei colpi di cannone che partivano da mare —  e poi degli altri ancora, e quindi un cannoneggiar fitto e continuato.
Furono immediatamente soprappresi da grande agitazione, e, non conoscendo la nuova Imperiale disposizione che ricevuto aveva la flotta Francese di lasciar la costa a discrezione dei Piemontesi, si credettero traditi, e fortemente si rammaricavano dell'atroce caso.
Nondimeno restarono tutta la notte sotto i fuochi della squadra Piemontese, ed esposti agli enormi proiettili che lanciavano i Cannoni da 40 e 80 rigati — i quali per altro non cagionavano gravi danni, perché l'uragano non permetteva che fossersi ben diretti allo scopo.
Però qualche ora prima di giorno il Comandante in Capo, reduce da Gaeta, dove era stato chiamato dal Re, onde ricevere novelle istruzioni — spediva l'ordine a quelle truppe del Garigliano, che, quali per la consolare, e quali per la via delle montagne, ripiegate avessero sopra Mola — non potendo più oltre tenere il Campo colà, dove un fitto bombardamento avrebbe potuto cagionar loro infruttuosamente ben gravi danni.
Così quell'esercito, estenuato pei lunghi disagi, e fieramente molestalo da un incalzante bombardamento eseguiva un'altra bene ordinate ritirata, e senza riportarne alcun danno; senonché, un pezzo della quarta batteria da campo veniva dai fuochi nemici smontato, e rovesciato in un fosso portatore della consolare: però il Comandante della batteria, egli stesso soffermavasi, e facevalo posatamente ritrarre e trasportare a Mola!
Ed all'albeggiare del seguente giorno tutte le truppe del Garigliano vi giungevano alfine, dopo 12 ore di bombardamento, e  vi occupavano le le più importanti posizioni, di già fortificate con appositi lavori.
La divisione del Generale Colonna situavasi sulla strada che conduce a Itri, e l'artiglieria da campo che trovavasi con la colonna passava oltre, e recavasi a Fondi, restando a Mola solamente la batteria a cavallo, che già trovavasi colà, e la batteria da campo estera, nonché una di montagna, che allor giungevano dal Garigliano.
E fino al giorno 2 novembre si cercò di accrescere il valor difensivo di Mola, e veramente quelle posizioni, per loro stesse ancora, si eran tali, da poter sostenere un qualunque attacco, che tentato si fosse dall'inimico per via di terra.
Doppo due giorni che la piazza di Capua restata fosse affidata alte proprie forze, una colanna dello Esercito Piemetose, già disceso per gli Abruzzi, recavasi a darle la stretta in tutti i sensi, — però in tal guisa da permettere che tenuto avesse i suoi avamposti a non meno di 1000 metri al di là dello spalto; ed in quel tempo la sua general posizione, era la seguente: il Generale de Cornè ne assumeva il Comando in capo e la guarnigione componevasi di 6 in 7 mila uomini di fanteria, alcune compagnie di zappatori minatori, 1500 uomini di artiglieria, due squadroni di carabinieri ed una mezza batteria da campo.
Vi erano a difesa delle fortificazioni 240 bocche a fuoco di diverso calibro, fra le quali: un obice cannone da 80 — due da 60 — e molti cannoni da 24.
Dall'esatto calcolo delle munizioni che assegnar si potevano a cadauna bocca a fuoco, ritenevasi che la piazza avrebbe potuto spiegare non più di sei giorni di fuoco sopra tutti i punti.
La difesa limitavasi alla cinta principale, e le opere esteriori si guardavano, a solo oggetto di evitare una qualche sorpresa. Vi erano non meno di cinquanta giorni di viveri, soddisfacenti cosi alla guarnigione che agli abitanti, e solamente di danaro vi era notevole deficienza; per cui si obbligarono i proprietarii ad anticipare un semestre di fondiaria.
Gran parte degli affusti trovavansi in cattivo stato, e tutti quanti poi mancavano del corrispondente ricambio. Non ci erano ricoveri a pruova di bombe, onde garantire gli assediati, e le istesse polveriere e riserve erano mal condizionate, ed immensamente esposte. — I parapetti, che il tempo aveva deteriorati, mancavano della debita ispessezza non che dell'ordinaria altezza d'appoggio, da lasciare il petto degli artiglieri interamente scoverto.
In tale istato trovavasi quella piazza, tenuta dal Borbonico Governo nel più riprovevole oblio, — lorquando il Generale della Rocca, Comandante in capo Tesercito assediante, dirigeva un gentile foglio al Generale De Cornè, in cui, esponendogli o meglio ricordandogli le sfavorevoli condizioni in cui la si trovava, e le poche risorse su cui fidar poteva, gli proponeva di rinunciare ad ulteriore ispargimento di sangue. — Ma il Generale Governatore spontaneamente gli rispondeva: «Non poter cedere la piazza, e dover resistere finché le di lei forze non fossersi tuttaffatto esaurite».
Ed ordinava quindi che il consiglio di difesa pronunciato avesse il suo voto al proposito, il quale (benché tardi) risultava quasi contrario alla già presa deliberazione del Generale De Cornè: dapoichè decideva il Consiglio di difesa, che, avendosi riguardo allo stato poco saddisfacente in cui si trovava la piazza, alla proposta del Generale della Rocca, avrebbe dovuto rispondersi, con minore ardimento, e con maggior ponderatezza.
Si cominciarono, nonpertanto, a praticare dagli assediati i latori indispensabili alla difesa, come: traversa per evitare rinfilata dei pezzi, blinde alle polveriere ed altre alle più esposte batterie: mentrechè gli assedianti lavoravano assiduamente per la costruzione di quattro precipue batterie. La prima alla distanza di 1300 metri presso la strada di Santa Maria, di mortari di grosso calibro; la seconda a 1400 metri, sulla strada di S. Tammaro, di cannoni da 12 rigati; la terza a 1600 metri sulla riva destra del Volturno, con cannoni da 4 rigati, di montagna; e la quarta a 2000 metri, e dirimpetto Porta Nuova, ancor di cannoni da 12 rigati.
Però la piazza non lasciava di molestare quei lavori dell'inimico, la di cui lontananza non permetteva che si fosse così fatto da interromperne il corso.
E con lo stabilimento delle nemiche batterie, gli avamposti di Capua, furon costretti di ripiegare fino alle opere esterne.
Il giorno 30 ottobre, verso le 4 (p. m.) le batterie nemiche spiegarono simultaneamente i loro fuochi, contro la piazza, aggiungendosi alle prime descritte certune altre che allora solo si smascheravano.
Non risposero gli assediati in sulle prime, ma poco dopo si davano a spiegare i loro fuochi, che seguitavano intensamente fino a sera in si rallentarono alcun poco: – mentre quelli degli assediarti continuavano sempre, sospendendosi solamente per un'ora verso la mezza notte.
BB GAETA
Durante il bombardamento diverse volte riunissi il Consiglio di difesa, per discutere sulla resistenza della piazza, finché ad unanimità non si decise di dover cedere, per le seguenti ragioni: 
1. Perché la popolazione di 11 in 12 mila anime, nonché la guarnigione, si trovavano intieramente esposte al bombardamento, senza potersi in verun modo garentire per mancanza di casematte; 
2. Perché le mal condizionate polveriere avrebbero potuto facilmente iscoppiare a grave nocumento degli assediati e della piazza istessa;
3. Perché si era affatto sprovveduti di nuove artiglierie a grande portata, onde ismantellare le batterie nemiche, od almeno farle zittire per alcun tempo; 
4. Perché vi era gran deficienza di polvere, giacché molta parte erasi consumata nei giorni precedenti.
Per il che verso l'una (p. m.) del primo Novembre si elevarono le bandiere parlamentari sui bastioni Sperone, Conte ed Olivares, che non furono ben distinte dagli assediati a cagione del cattivo tempo, e per cui fu mestieri spedire al campo nemico un Maggiore di Artiglieria, ad esporre il desiderio di resa.
E la mattina del giorno 2 Novembre, il Generale de Liguoro della guarnigione di Capua, ed il Generale della Rocca, stabilivano una vantaggiosa capitolazione, per cui quella guarnigione usciva dalla piazza con tutti gli onori militari.
Il giorno 3 la truppa di Mola stava in attenzione di essere attaccata — le vedette di cavalleria si erano spinte fino a due miglia al di là dell'abitato, verso il Garigliano — ed a Maranola, che giace quasi a cavaliere di Mola, e da coi ancor temevasi un qualche tentativo dell'inimico — si erano praticate tutte le difese possibili, e vi era un sussidio di quattro compagnie di carabinieri esteri, e mezza compagnia di zappatori minatori.
Oltreché un'uffiziale del Genio aveva già minato a Pontecorvo, dove era stato con poca truppa, il gran ponte, sul quale à corso la traversa che mette sulla consolare di S. Germano, perché l'inimico più difficilmente per Pontecorvo e Roccaguglielma avesse potuto prendere alle spalle le posizioni di Mola; — oppure mostrarsi improvvisamente alle gole d'Itri, quando la squadra Piemontese cominciò il fuoco contro Mola. — Ed in un momento quelle alture ben coronate di cacciatori e difese da ottime artiglierie, che avrebbero potuto arrestare un qualunque movimento tentato si fosse dall'inimico per via di terra, contro un bombardamento per via di mare addivenivano perfettamente inutili.
Senza un sol legno da guerra l'Esercito Regio, perché sua si era o meglio si era stata, quella flotta che circa 4000 metri lungi dal campo isventolar faceva l'insegna Piemontese, qual mai resistenza opporre poteva per via di mare?... Fidente, un'altra volta nella protezione Francese, un'altra volta lasciavasi illudere ed indifesa restava tutta quanta la caste; e per non volersi mostrar diffidente, malcauto una seconda fiata pagava il fio della sua dabbennaggine e della sua mal fondata credulità!
Non è però da meravigliarsene menomamente: era il ramo discendente dell'orbite che descriveva l'infausto pianeta dell'ultimo Regnante della Borbanica Dinastia, che Dio perdoni di Colui, che, giovane e nuovo alle cure dello Stato, lasciar non volle di carezzare e proteggere coloro che umiliati e genuflessi trovava a piè del trono; e che, infidi consiglieri, col di loro egoismo ne scalzavano le instabili fondamenta, e non cessavano di tradirlo financo negli ultimi giorni; — ma non pel bene, o per amore del proprio paese, ch'essi avevano di già mostrato di sconoscere in tempi a loro favorevoli, e che stimar non seppero giammai: ma solo per farsi dell'imberbe Sovrano
Sgabello ai piedi per salir sublime. 
Soffrivano adunque le milizie Napolitane il giorno 3 un bombardamento che seguitò fino alla sera, riportandone lievissimi danni e ritenendo sempre le proprie posizioni.
No vi erano cannoni a Mola di grande portata, onde controbattere l'inimico, e solamente un cannone da 12 rigato, che dirigeva un colonnello di Artiglieria, sfidar doveva i fuochi di un'intera flotta — di un'intera flotta, che pur dovette retrocedere alcun poco, onde evitar le offese dell'audace competitore! 
Tutta la notte si apportarono rimedii ai guasti cagionati dal bombardamento, e si stabilirono puranche sulla costa due obici cannoni da 80, che giungevano da Gaeta.
La mattina del 4 la flotta ricominciava il fuoco ancor più fieramente del giorno avanti, a cui pur rispondevano il cannone da 12 e i due obici cannoni da 80: i quali però, lungi dal cagionare alcun bene ai Regi, richiamavano invece tutti i fuochi dell'inimico su quei punti.
B&B GAETA
Il giorno avanti il Generale Salzano aveva ricevuto la sovrana disposizione di far ripiegare le truppe di Mola sullo stato Romano, quante volte si fosse stato costretto di eseguire un'altra ritirata.
Il nuovo comando però non era bene accettò dal Generale in capo, il quale peraltro, non deviando dai suoi doveri, il comunicava al Generale Bertolini, Capo dello Stato Maggiore dello Esercito Operante, che non trasandava di opporvisi vigorosamente, e per cui fu mestieri di riunire un Consiglio di Generali, onde interrogarli sull'importante proposito.
Tutti formalmente si protestarono contro quell'impolitico ed irregolare movimento, e deliberossi che il Generale Barbalonga sarebbesi recato dal Ministro della Guerra a Gaeta, onde informarlo dalla loro risoluzione.
Così fecesi: però la missione di lui riusciva infruttuosa, giacché il Re faceva sentire, che tutti fossero stati al già disposto; per cui il Generale Bertolini unitamente ad un colonnello dello Stato Maggiore, ponevano in iscritto la già presa deliberazione del Consiglio dei Generali, in maniera ponderata e fortemente ragionata, e spedivanla in quell'istesso giorno al Re, onde avesse voluta tenerla in considerazione.
Ed il giorno seguente giungeva a Mola un inviato del Re, onde far sentire a quei Generali, che la di loro deliberazione era troppo ben ragionata perché non fosse stata lo scopo si tutta la Sovrana ammirazione ma che nondimeno la truppa di Mola ripiegar non potendo sopra Gaeta, perché i mezzi della piazza sarebbero stati insufficienti per altri 15 mila uomini, che lungi dal cagionarle alcun bene le sarebbero invece tornati di grandissima molestia; — necessariamente varcare dovevano la frontiera, e penetrare nello Stato Romano dove si era certo che sarebbero stati ricevuti non solo, ma ben accolti e rispettati.
Molte, e diverse obbiezioni, e difficoltà d'ogni maniera furon rivolte a quell'alto inviato, ed il General Bertolini segnatamente, ma sempre con la debita moderatezza, e valer facendo la ragione, nuovamente a dimostrar si fece la inconvenienza di quel movimento, facendo con molta avvedutezza riflettere:
1. Che la truppa Napoletana non poteva accedere, e restare nello Stato Ponteficio , senza consegnare le armi alla guarnigione Francese, colà residente; 
2. Che fuori del proprio Regno sarebbe mancato tutto che rendesi indispensabile a semplicemente vivere; 
3. Che la soldatesca avrebbe potuto commettere degli abusi, che in estranei paesi sarebbero stati forse mai tollerati — e dei quali i Superiori in generale non valevano, rendersi responsabili — e che avrebbero potuto commettersi a grande dispiacevole discapito del proprio paese, ed in particolare della loro riputazione.
Intanto la squadra Piemontese verso mezzogiorno sospendeva il fuoco già cominciato da cinque ore — forse isperando che i Regi abbandonate avessero le loro posizioni, per le quali, mancato l'appoggio della flotta Francese, rendevasi imperdonabile stolidezza la volontà di seguitare a difenderle.
Nulla per altro erasi ancora stabilito sulla via a battere in ritirata, per il che il Generale Salzano recavasi a Gaeta onde prendere dal Re le debite disposizioni.
Però verso le due (p. m.) la squadra Piemontese osservando l'ostinazione dei Regi, ricominciava più gagliardamente il bombardamento; di guisachè il Comando in Capo dell'Esercito Operante, convinto dell'impossibilità di resistere più oltre, ordinava che cominciata si fosse la ritirata sopra Montesecco avanti Gaeta.
E, mentre i Regi a ripiegar cominciavano, I'Esercito Piemontese celeramente si avanzava alle spalle ed attaccava gli avamposti che non ancora avevano seguiti il movimento; sicché, la ritirata praticavasi sotto il bombardamento per via di mare, e sotto i fuochi delI'Esercito che si avanzava alle spalle.
B&B GAETA
La strada nuova che conduce da Mola a Gaeta h piacevolmente costrutta lunghesso la marina, e, desiosa di godere i vantaggi del monte e del mare, tiene il sinistro lato sul mar Tirreno, mentre sul destro è interamente protetta dai monti laterali. — D'incostante larghezza, in taluni punti si stringe moltissimo — in taluni altri moltissimo si allarga — e tutta serpeggiante rendesi più variata e dilettosa, ma inadatta moltissimo ai movimenti d'un numeroso esercito.
Or la truppa di Mola, bersagliata da tutti i lati — accalcata incredibilmente su quella strada  — dove sì trovavano, e le ambulanze, e i militari carriaggi tutti quanti, ed ogni specie di vetture particolari: e dove di grande ostacolo, si rendeva la batteria di montagna: quella truppa, perfettamente disordinata, si urtava, si mescolava ed ancor peggio, restava sotto i fuochi nemici!
Giorno terribile — giorno inaccettabile certamente dalla memoria di coloro che dovettero assistere a quella scena dispiacente ma pur disonorante!...
Scena disonorante sì, ma non istrana, e non vorrà certamente meravigliare del caso colui, che, conoscendo la storia, mille simili fatti ricorderà: – e i 100 mila Albigesi che fuggivano innanzi ad 80 mila crociati; e gli 80 mila Russi, posti in fuga da un migliaio di Svedesi, – ed i primi soldati del mondo che a Vaterloo fuggivano all'aspetto di pochi Reggimenti Inglesi!!
Delle batterie da campo solamente quella estera trovavasi a Mola, per cui fu incaricato il capitano Févot che la comandava, di collocar due pezzi allo sbocco del paese, onde garantire la ritirata.
Così faceva quel Capitano, ed egli stesso difender volle quel passo, da cui dipendeva la vita di circa 15 mila uomini: egli stesso arginar volle l'imperversante torrente dell'Esercito Piemontese, di già padrone delle posizioni di Mola; ed egli stesso lasciava la propria vita colà dove molte altre voleva salvarne!
Giunse alfine la truppa di Mola a Montesecco, e vi giunse ancora la Divisione del Generale Colonna, che trovavasi sulla strada d'Itri ed il quale aveva pur preferito di ripiegare sopra Gaeta. Trovavasi fra Fondi ed Itri un'altra colonna di circa 12000 uomini con quattro batterie da campo, comandata dal Generale Ruggieri, e destinata a proteggere le spalle dell'intiera linea di operazioni dalla parte delle gole di ltri: la quale non potendo più oltre restare colà dove sarebbe stata certamente attaccata, senza frutto veruno, disponevasi a lasciar quelle posizioni.
B&B GAETA
Avrebbe potuto prendere la volta degli Abruzzi, come recar si poteva nello stato Romano!
Quale delle due strade preferir doveva la colonna Ruggieri?
Se quella doveva degli Abruzzi, gittata sarebbesi in una contrada tuttaffatto distaccata dal comando in capo dell'Esercito di Operazioni; si sarebbe cioè allontanata meglio divisa dal centro delle risorse, ed avrebbe quindi dovuto procacciarsi da vivere per via di elemosina oppure per via di saccheggio.
Vagando di paese in paese, di provincia in provincia come un'orda di barbari, 12000 Napoletani, 12000 figli di Marte, sarebbero in poco d'ora addivenuti 12000 seguaci di Polipemone da Pausania!
Dunque sembra che la colonna Ruggieri batter non poteva, batter non doveva la via degli Abruzzi.
Dalla mente troppo picciola del Comandante si credette, che l'unico e savio consiglio si era di passar la frontiera nostra, e ridurre i suoi in sul Ponteficio suolo!
Per cui quella truppa, stanca, abbattuta, e seminuda giungeva a Terracina. Preferiva adunque al proprio paese di refugiarsi in estranea terra: fuggiva dai suoi concittadini, e fra le braccia si affidava di straniera gente...! Ma, se quella truppa fuggiva dal proprio paese, nol faceva forse perché il paese erasi mostrato verso di lei sempre avverso, e poco generoso?... Han forse qualche volta tentato i Napoletani , di far del bene ai Regi ed indurli così, e dolcemente, ad esser loro compagni nella loro causa?
B&B GAETA
Poco dopo giungeva pur colà il Generale Piemontese De Sonnaz, con proposta di capitolazione per quella colonna, e mercè la quale, senz'andare più oltre, sarebbe invece pacificamente rientrata nel Regno, evitando di rimanere per altre terre, dove si ha ancor meno l'abitudine di compiangere l'altrui sventura! – dove si ha meglio il costume di ridere sulle altrui miserie!!
Accettava di fatti il Generale Ruggieri la proposta di capitolazione, quale ancora di salvezza, ma quando fra le condizioni si ebbe di dover mettere a discrezione dell'inimico i battaglioni esteri che formavano parte della sua colonna — quando egli considerò che quella legione che alla fine aveva corso gl'istessi pericoli del resto della truppa, in quel momento trovavasi interamente affidata alla napolitana militare generosità, allora l'animo di quel Generale, sotto razione di una lotta fierissima, si trovò in un momento di decisione terribile, ed in cui prevalse la generosità!
Cosi quella colonna preferiva di restare nello Stato Romano, e consegnare le armi alla truppa Francese.
Forse biasimar si deve la risoluzione del Generale Ruggieri; però noi ci crediamo troppo deboli per pronunciare il nostro parere e lasciar vogliamo agli storici di giudicare sull'importante caso: agli storici, che potranno col senno maggiore, ed in tempi in cui si godrà forse la calma dalle lunghe e lagrimevoli lotte usare nello scrivere tutta la giustizia che richiede la loro penna. B&B GAETA
Le truppe che da Mola ritirate si erano sopra Montesecco, si riordinavano colà verso sera e bivaccavano, appoggiando l'ala destra del campo sugli spaldi di Gaeta e poco appresso, ma nella stessa notte, spingevano gli avamposti fin sul monte Apratino.
B&B GAETA 
E cosi restavano ad un rigoroso bivacco, dove mancavano financo le legna per fare i fuochi, fino al giorno 9, in cui si vide un picciol corpo dell' Esercito Piemontese defilare sul monte Conca, ed il quale avanzavasi per semplice ricognizione.
Il giorno 11 però l'inimico pei monti Torto, S. Agala e S. Maria della Catena, piombava sull'avanguardia dei Regi, con la quale sosteneva un vigoroso attacco senza però discacciarla dalle sue posizioni.
Ed alfine il giorno 12 quella truppa di Montesecco composta di circa 11000 uomini, giacché il resto per Sovrana disposizione il giorno 5 per la vìa di Sperlonga recata si era nello Stato Romano, ottenne di lasciare il campo di Montesecco, il quale, scoverto da tutti i lati, si rendeva immensamente micidiale — ed ottenne di entrare definitivamente nella piazza.
Così l'Esercito Napoletano, dopo una serie continuata di movimenti retrogradi, da Marsala, menomandosi di giorno in giorno come l'esercito di Wurmser che distruggevasi sotto le mura di Mantova, nelle poche vestigia, riducevasi sui bastioni di Gaeta, a sostenere le ultime speranze di una Dinastia, estinguentesi sotto il peso formidabile di un destino, che in sette mesi mostrava al mondo attonito, aver saputo abbattere una Monarchia che stabile si credeva pel principio di leggittmità.
Napoli iì di 7 aprile 1861. 
B&B GAETA
 
 
 

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SU ALCUNI PROVERBI E MODI DI DIRE DEL POPOLO GAETANO

Tratto da SU ALCUNI PROVERBI E MODI DI DIRE DEL POPOLO GAETANO di Salvatore Marruzzino (Passerino Editore).
 
Giusto trenta anni fa, nel 1985, fu pubblicato a Gaeta, per le cure del locale “Centro Storico Culturale” e in prima edizione[1], un volume di importanza storica per questa città: Proverbi e modi di dire del popolo gaetano, opera di Nicola Magliocca, un uomo, per dirla alla gaetana, con «quatte rétele de fronte»[2].
Il ponderoso volume si divide in due parti: la prima (pp. 13-122) è dedicata appunto a questi proverbi (in tutto 1278), seguiti, uno per uno, dalla traduzione in lingua, mentre la seconda parte (pp. 123-325) contiene 1169 modi di dire, di volta in volta tradotti e illustrati con ammirevole dottrina ed esemplare chiarezza[3]: il lavoro, che costò all’Autore anni ed anni di paziente e meticolosa ricerca, ha giusto lo scopo «di ricuperare e di divulgare … lo spirito e la saggezza del popolo gaetano» (p. 8).
Invece il presente contributo, a cui sembrava invitarci lo stesso Magliocca (p. 7): «con questa raccolta … non si ha la presunzione di aver compiuto un lavoro completo e perfetto», ha il solo intento di esaminare alcune di queste espressioni, per metterne in evidenza il pregio artistico e l’origine erudita: soprattutto, si consideri, questa, un’occasione per ricordare e rendere modesto omaggio al nostro insigne e benemerito concittadino Nicola Magliocca.120320480_3292737044179874_5755437518432216621_o.jpg
 
Non essendo l’ordine e la sistematicità il nostro forte, procederemo a sbalzi, cominciando dal termine famore, riferito dal Magliocca a p. 185 (n. 1653), e spiegato come una locuzione di senso causale, secondo l’esempio che si adduce: «famore ca sì cchiù ruosse (per il fatto che sei più grande) fai il prepotente con i ragazzini». Ma da dove ha origine questo curioso idiotismo? Guidati dal solo orecchio, noi avanzeremmo la seguente ipotesi: se dividiamo in due famore,si ottiene fa more, ossia «fa mora»; che si tratti di un composto potrebbero provarlo la presenza nel dialetto gaetano di analoghe formazioni dotte, come diasille = dies irae e ĝlibbranne=libera nos, e la stessa variante fammore con cui la parola è registrata dalMagliocca nel suo Dizionario Gaetano (Gaeta 1999)[4], quindi con il raddoppiamento dell’iniziale del secondo elemento del composto, come nell’ital. fannullone, da fa nulla (o anche ammodo = a modo). A vero dire fa mora, nel senso di fa indugio, diversamente da fa ostacolo, fa impedimento, non sembra suonare italiano: epperò facere moram è espressione del latino, attestata, giustappunto nel significato di «to cause delay», dagli esempi riportati dall’Oxford Latin Dictionary (s.v. mora, p. 1132,1b)[5]. Nel succitato esempio del Magliocca diventerebbe così chiaro che i ragazzetti non indugerebbero a reagire al sopruso subìto, se non fosse per l’imponenza del prepotente di turno che li inibisce. Se tale congettura non è campata in aria, famore (fammore) sarebbe un latinismo, uno dei tanti del dialetto gaetano, che lo stesso Magliocca non manca, all’occasione, di rilevare[6].
Il proverbio riportato dal Magliocca a p. 64 (n. 612): la cammise de gliu pòvere se la spàrtene glie pezziente (la camicia del povero se la spartiscono i pezzenti) – che esiste anche nella parafrasi ‘gaetanizzata’ (M. p. 107, n. 1122): Santu Cuóseme iette le pezze e San Giàcheme ci’ arrepezze=«S. Cosma (ritenuta una parrocchia ricca) butta i ritagli e S. Giacomo se ne serve per i rattoppi)» –, sia per l’immagine che per il verbo, sembra richiamare il Salmo XXI 19 diviserunt sibi vestimenta mea («si sono divise le mie vesti»). In realtà, il senso intimo della frase, che alla povertà non c’è fine, è fatto risaltare dal contrasto, non solo del numero ma anche concettuale, tra pòvere e pezziente[7]; orbene, tale contrapposizione riflette l’uso dei Romani, i quali distinguevano tra paupertas (povertà relativa)[8] ed egestas (povertà assoluta): cf. Cicerone, paradoxa Stoicorum 45 paupertatem vel potius egestatem ac mendicitatem ferre (=«sopportare la povertà, o piuttosto l’indigenza e la pezzenteria»)[9].
Un’altra locuzione particolare della parlata gaetana è: appriesse agli’ ùteme, come si usa dire dai ragazzi che fanno la conta prima di iniziare un gioco: «i so gli’ ùteme e tu appriesse a gli’ ùteme», annota il Magliocca (pp. 138 s., n. 1369), osservando: «sembrerebbe che dopo l’ultimo ci sia ancora un altro; ma non è così, ‘appresso all’ultimo’ significa semplicemente il penultimo». Non sembra che la lingua italiana conosca un tale uso di appresso[10], e tuttavia la particolarità potrebbe spiegarsi con l’uso attributivo dell’avverbio nella nostra espressione, per cui esso viene ad assumere il significato di ‘prossimo’; e nella nostra lingua ‘prossimo’ (come il lat. proximus da cui proviene), oltre che indicare successione immediata (‘il mese prossimo’), può anche riferirsi, sia pure meno comunemente, a un passato recente (‘passato prossimo’). Pertanto, il penultimo è quello che viene appriesse a gli’ ùteme per il fatto che, nel fare al tocco, è stato contato immediatamente prima dell’ultimo: lat. proximus a postremo.
L’effetto del proverbio (M. p. 38, n. 306): chi sta annanze me lasse e chi sta arrete me passe=«chi sta avanti mi lascia (più indietro) e chi sta dietro mi sorpassa» è nella contrapposizione logica tra lasse e passe, enfatizzata dal gioco paronomastico[11], dall’anafora (chi … chi) e dal parallelismo formale dei due membri della frase con i verbi in collocazione caudale. Ma quel che occorre rilevare è che, mentre l’uso transitivo di passare nel senso di «oltrepassare» appartiene all’italiano, l’uso assoluto di lassare[12], nel senso di «lasciare indietro», s’intende nella corsa (per terra o per mare, reale o, come sembra nel nostro proverbio, metaforica), corrisponde all’uso particolare dei verbi latini relinquere e deserere, come nei seguenti esempi di Ovidio: met. X 661 s. o quotiens, cum iam posset transire morata est | spectatosque diu vultus invita reliquit= «oh, quante volte lei[13], quando già poteva sorpassarlo[14], rallentò, e contemplato a lungo il suo viso, a malincuore se lo lasciò indietro!»[15], e ars II 725 ss. sed neque tu dominam velis maioribus usus | desere, nec cursus anteeat illa tuos; | ad metam properate simul =«ma, sfruttando le tue vele maggiori, non lasciare indietro nella navigazione la tua donna; ed essa, a sua volta, non preceda la tua rotta: tendete insieme alla meta»[16] (il raggiungimento del piacere nell’amplesso non è, come in una regata, una corsa a chi arriva primo alla meta, ma un traguardo da raggiungere insieme).
 
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A p. 197 (n. 1728) il Magliocca registra la seguente locuzione: glie Griece so fetiente!... (i greci sono gentaglia!...), chiosando: «Modo di dire ellittico che sottintende il seguito:… “ma voi li superate”»[17]. Francamente noi ignoriamo per quale personale risentimento i nostri padri gaetani reputarono di dover mettere in proverbio i Greci, sia pure come termine di confronto in una comparazione che implica gradazione dal meno al più, in un modo così sprezzante, sì che ci sembra probabile che tale ingiuriosa espressione voglia solo ripetere il tradizionale pregiudizio che i Romani, memori del perfido inganno con cui fu presa la patria del loro progenitore Enea, nutrivano nei confronti dei Greci, pregiudizio che ebbe la più alta espressione nel noto epifonema virgiliano (Aen. II 49): timeo Danaos[18] et dona ferentes («temo i Danai anche quando portano doni»), venuto poi in proverbio[19]. Pertanto il nostro modo di dire potrebbe avere carattere meramente letterario, senza alludere a qualche preciso avvenimento della millenaria storia di Gaeta.
Anche l’adagio, riferito dal Magliocca a p. 17 (n. 31): addevine e fatte re (indovina e fatti re) non ci è noto da altra fonte. Non avendo noi la presunzione di indovinare alcunché: Davus sum, non Oedipus (sono Davo, non Edipo)[20], né l’ambizione di diventare re, ci limiteremo a riferire il seguente passo dell’ecloga III (vv. 104 ss.) di Virgilio, il solo che ora ci viene in mente: dic quibus in terris (et eris mihi magnus Apollo) | tres pateat caeli spatium non amplius ulnas. || Dic quibus in terris inscripti nomina regum | nascantur flores, et Phillida solus habeto; la situazione è quella di due pastori che si sfidano a colpi di indovinelli: «dimmi in quale terra (e sarai per me il grande Apollo) lo spazio del cielo è ampio non più di tre cubiti»[21], propone Palemone a Menalca, e questi, a sua volta: «dimmi in quale terra sboccino i fiori segnati dai nomi dei re, e abbiti tu solo Fillide»[22]. Certo la forma paratattica del costrutto è sempre la stessa, ma i due premi sono tutt’altra cosa dal regno promesso nel nostro proverbio. Per questo è nostra meditata opinione che addevine e fatte re evochi piuttosto il mito di Edipo, il risolutore di enigmi per antonomasia, il quale, per l’appunto, divenne re di Tebe dopo aver sciolto l’indovinello della Sfinge[23] (e ucciso, o indotto a uccidersi quell’orrendo mostro). Se poi ricordiamo le modalità e le nefaste conseguenze dell’ascesa al trono dell’eroe simbolo della tragedia antica – vale a dire l’uccisione, inconsapevolmente, di suo padre Laio, le nozze incestuose con sua madre Giocasta, la procreazione di figli che gli erano anche fratelli (altro che l’enigma della Sfinge!), e ancora l’autoaccecamento in pena dei suoi delitti, e l’uccisione per mano reciproca dei figli Eteocle e Polinice – viene da chiedersi: vale così tanto indovinare e farsi re?
Splendida è la metafora da cui ha origine il detto (M. p. 61, n. 577): gliu sacche vacante ne’ se mantene all’aderte = «il sacco vuoto (la persona digiuna) non si mantiene all’impiedi». Sentendo profferire questo detto, verrà da pensare a Napoleone Bonaparte, il quale «ci teneva che al suo esercito venissero sempre assicurati i necessari rifornimenti, in modo che i soldati potessero alimentarsi a sufficienza: “Un soldato è come un sacco – sosteneva –. Per poter stare in piedi dev’essere pieno”»[24]. Applicata ai soldati, l’immagine risulterà ancora più efficace, ove si rammenti che i legionari romani, in procinto di combattere, erano soliti consumare il rancio all’impiedi[25].
La locuzione cantà la wàllere (cantare l’ernia scrotale) è così spiegata dal Magliocca (p. 149, n. 1436): «chi è affetto da tale male, burlescamente, è ritenuto capace di pronosticare i mutamenti meteorologici allorché glie cante la wàllere (gli canta l’ernia), cioè accusa qualche disturbo. Metaforicamente il detto vale anche per chi fa previsioni di eventi sfavorevoli, pur non essendo affetto da questo male. Allora si sentirà dire: Ma che te cante la wàllere? (ma che ti canta l’ernia?)». Usato così, quasi che la wàllere fosse la sibilla cumana, il verbo cantà ripete il latino cantare, che, come il semplice canere di cui è intensivo, può significare, in senso traslato e prevalentemente poetico, «predire cantando», come, p. es., in Columella, de re rustica X 80 veris … adventum nidis cantavit hirundo = «la rondine dal nido annunziò col suo canto l’arrivo della primavera». Per il riferimento anatomico e per la personificazione, comicamente solenne, dell’organo maschile cantà la wàllere potrebbe essere avvicinato al napoletano cogliune mie sunate a gloria! (testicoli miei suonate a gloria!), un’esclamazione che viene naturale alla bocca, magari accompagnata da un adeguato gesto d’ambo le mani, le volte che si sente qualcuno, affetto da mania di magnitudo, spararle grosse, insopportabilmente grosse: con tutti gli esaltati che oggi più che mai imperversano, non sappiamo voi, ma il nostro è un concerto continuo … di campane.
Il proverbio citato dal Magliocca a p. 53 (n. 470): gli’ àsene porte la paglie e gli’ àsene se la magne (l’asino porta la paglia e l’asino se la mangia) ci sta particolarmente a cuore, perché ci ravviva il dolce ricordo della nostra nonna materna Rosa, la sola dei nostri quattro nonni che abbiamo conosciuto vivente, ‘na capatosta santantemara. Quando, ragazzini, con le nostre sorelle Ida e Cecilia, ci si recava da Gaeta ad Aversa per farle visita, era nostro costume portarle in dono una scatola di biscotti o cioccolatini; e nostra nonna, mentre con le mani tremanti per gli anni e per i nove figli generati e allevati apriva la scatola per dispensarcene le delizie, non tralasciava mai di declamarci: l’asino porta ‘a paglia e l’asino s’arraglia =«l’asino porta la paglia e l’asino se la raglia». Si noterà che la versione napoletana del proverbio, rispetto al gaetano se la magne, esibisce la variante s’arraglia, a nostro parere preferibile, non solo per l’efficace assonanza di rima: paglia | arraglia, ma anche per l’anomalo uso transitivo di questo verbo nel senso pregnante di «mangiare ragliando»: è ragliando a chiara voce che l’asino manifesta la piena soddisfazione per il gradito pasto (ad onta del proverbio italiano: l’asino più raglia e meno mangia).
Per contro, sembra anche a noi più espressivo il gaetano la sarde fete dalla cape (la sarda puzza dalla testa), a fronte del generico pesce, non solo perché la sarda è più aderente alla realtà locale, facendo parte «del commercio, dell’economia, del costume alimentare del popolo gaetano» (Magliocca p. 8), ma anche perché la sarda, per il suo caratteristico e intenso odore, sembra, fra tutti i pesci, particolarmente adatta a rappresentare il senso del proverbio.
Per conferire incisività al pensiero e agevolarne la memorizzazione, gli anonimi autori di questi aforismi facevano largo uso di figure retoriche di ogni genere, di ritmo (allitterazioni, onomatopee …, come già si è avuto modo, qua e là, di osservare), di significato e di pensiero, spesso in combinazione tra loro. Ne riferiremo alcuni esempi, in cui l’effetto pare che sia piuttosto ricercato che casuale o spontaneo, sufficienti per illustrare il pregio stilistico di questi detti e la perizia tecnica di chi li creò.
 
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L’espressione gliu mare è mare (M. p. 58, n. 541) non è una tautologia di J. de la Palice, ma un sottile bisticcio, ottenuto giocando con il doppio significato di mare, prima nome e poi aggettivo («amaro»), a richiamare, come sembra, la dura condizione di chi, quotidianamente, affida al mare la propria esistenza. Il gioco di parole si trova in Stazio, silvae II 2, 18 s. e terris occurrit dulcis amaro | nympha mari («da terra un corso d’acqua dolce corre nel mare salato»), ma qui amaro, antiteticamente giustapposto a dulcis, è usato in senso meramente fisico.
Lo stesso gioco tra nome e aggettivo omografi ritorna nel proverbio (M. p. 65, n. 621): la corte è corte e puó se fa longhe =«la corte (la giustizia) è corta e poi si fa lunga». Altre espressioni di questo tipo sono: (M. p. 64, n. 615) la case a doi porte (nome) gliu diàveĝlie se la porte (verbo): «la casa a due porte il diavolo se la porta» e (M. p. 76, n. 771) lu case (maschile) arruine la case (femminile):«il formaggio rovina la casa».
Ecco invece alcuni brillanti esempi di giochi di assonanza con effetto di paronomasia: (M. p. 89, n. 933) nove mise, nove vise (nove mesi, nove visi); (M. p. 89, n. 930): n’occe quante e gliu nase fa ùtele alla case (una quantità piccola come il naso riesce di utilità alla casa); (M. p. 65, n. 620): la collere è fatte a cuoppe, chi la piglie schiatte ʼn cuorpe (la collera è fatta a cartoccio, chi la prende crepa dentro di sé); (M. p. 112, n. 1180): so cchiù vuce che nuce =«sono più voci (dicerie) che noci (fatti)»; (M. p. 177, n. 1603): facisse na secce e la facisse socce!=«facessi una seppia e la facessi buona!» (qui l’annominazione è fatta risaltare dall’anafora del verbo); (M. p. 112, n. 1177) sierve ca serve (conserva perché può servire).
Invece l’originale locuzione (M. p. 175, n. 1588): fà Bacche e bocche (fare Bacco e bocca, ossia bere e mangiare) sfrutta dapprima la metonimia (Bacche=il dio per il vino) e poi la sineddoche (bocche=l’organo per la funzione) per ricreare artificiosamente, anche nel suono, l’immagine viva di chi, abbuffandosi, dimena le ganasce.
Ancora il proverbio (M. p. 59, n. 548): gliu munne gl’ha sapé ammunnà=«il mondo devi saperlo sbucciare (affrontare)» esibisce una falsa figura etymologica, in quanto che il denominativo ammunnà=«mondare» deriva da munne aggettivo («mondo, sbucciato») e non da munne nome («il mondo, la terra con i suoi abitanti»).
Analogamente la locuzione gaetana (M. p. 193, n. 1704): feté la fatìe (puzzare il lavoro), attraverso la modifica della vocale radicale del verbo e del nome, d’etimo diverso, presenta un falso gioco apofonico, che si ripete nel proverbio (M. p. 66, n. 643): la fatìe si chiame fète=«il lavoro si chiama puzza (e per questo a molti non piace)».
Un altro modo di dire, prettamente gaetano, (M. p. 249, n. 2021): o Marche piglie a Turche o Turche piglie a Marche si giova dell’antonomasia, dell’assonanza (Marche | Turche) e dell’anafora (del verbo) per costruire un’efficace (e storica)[26] antimetabolé. Se poi si considera l’enfasi del verbo piglià (dal lat. pilare), e si riferisce la frase a uno solo dei due soggetti, nel modo seguente: i Veneziani o prendono i Turchi o sono presi dai Turchi, questa espressione risulterà vicinissima a quella del satyricon di Petronio (116) aut captantur aut captant (lett. «o sono presi o prendono»), riferita alle due sole categorie di uomini, gli imbrogliati e gli imbroglioni (captare, intensivo di capere, propriamente vale «prendere con accortezza»), in cui sono divisi gli abitanti di Crotone, ma, si direbbe meglio, in cui si dividono tutti gli uomini[27].
Il nome Marche ritorna, anche se come deformazione volgare del dotto Malco, in un’altra locuzione gaetana (M. p. 243, n. 1988): ne’ taglie manche la recchie a Marche=«non taglia nemmeno l’orecchio a Marco (si dice di un coltello che taglia poco o nulla)», che ci fornisce un chiaro esempio di iperbole per difetto: è noto, infatti, che Pietro, per tagliare l’orecchio del servo Malco, si servì di una spada e non di un coltello (Giovanni 18, 10 s.).
Capita quasi tutti i giorni, infine, di chiedere ai fruttivendoli di Gaeta nu pere de nzalate (M. p. 258, n. 2066); ebbene questo modo di dire si basa su una comune e antica sineddoche[28], equivalendo pere a piante (il tutto per la parte); senonché, nello sviluppo logico dell’immagine, il significato di pianta è slittato da quello di «pianta del piede» a quello di «pianta, cespo».
Due volte, in questo libro, il Magliocca cita Giovenale[29], la prima per annotare che il proverbio (p. 74, n. 743) la vicchiaje è na brutta bestie richiama l’espressione di sat. 11, 65: morte magis metuenda senectus (la vecchiaia è da temersi più della morte)[30], e la seconda volta per rilevare (p. 148, n. 1428) che l’immagine della cagline bianche (gallina bianca) ripete gallinae filius albae (figlio della gallina bianca) di sat. 13, 141[31]. A noi sembra che anche il proverbio (M. p. 82, n. 847): mia legge, mia spade, mia raggione=«mia legge, mia spada, mia ragione». (Il potente fa valere sempre le sue ragioni)» riecheggi, nella movenza logica e nella cadenza ritmica, un’altra celebre espressione di questo poeta (sat. 6, 223): hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas=«questo voglio, così comando, valga per la ragione la volontà».
A riguardo poi del vernacolo gaetano: piglià la quarte abbiente, che significa «appropriarsi di qualche cosa ai danni dei cointeressati», il Magliocca (p. 260, n. 2077) ci apprende che «la quarte, secondo gli Statuti gaetani, era la dote che il marito donava alla moglie dopo aver consumato il matrimonio: si denominava “il bacio del mattino” (lucrum primi osculi inter coniuges) oppure “basatico” ed era un residuo delle vecchie leggi longobarde, fissate da Liutprando». Orbene, dell’antichità di tale uso ci dà testimonianza lo stesso Giovenale nella satira VI (vv. 202-205): nec est quare … perdas | ... illud | quod prima nocte datur, cum lance beata | Dacicus et scripto radiat Germanicus auro=«non si vede motivo alcuno che tu ci perda … il dono che viene dato quale ricompensa per la prima notte, quando sulla ciotola ricca brillano un Dacico e un Germanico, per l’oro inciso»[32].
Invece il proverbio riportato a p. 115 (n. 1208) tante tié e tante vale =«tanto tieni (possiedi) e tanto vali» potrebbe riprodurre Orazio (sat. I 1, 62) quia tanti quantum habeas sis: «poiché quanto hai tanto vali»; in realtà – da Lucilio a Orazio, da Petronio[33] e Seneca[34] allo stesso Giovenale[35] e S. Agostino[36] – trattasi di una riflessione, tra le più amare e più vere, della sapienza popolare di tutti i tempi, specie di questi nostri, in cui non solo il valore della persona, ma la stessa durata della vita si misura in beni materiali, quelli che si lasciano alla morte: quanto è vissuto il tale? È vissuto due quartini, tre automobili, una barca a motore e un milione di euro: e puteva campa’ ʼn atu poco!
Notevole per l’elaborazione artistica è il proverbio (M. p. 86, n. 892): né fémmene e né tele a ĝliume de cannele=«né donne e né tele (si guardano) a lume di candela», sia sul piano della forma, con l’anafora (né … né), il pleonasmo (e), l’assonanza (fémmene | ĝliume) e l’omeoteleuto (tele | cannele), sia sul piano logico, per l’espressiva ellissi del verbo, e per la formulazione litotica del pensiero, più efficace rispetto al positivo: e le donne e le tele (si guardano) alla luce del giorno. La ragione di un tale divieto è evidente: a guardare le donne e le tele alla luce artificiale c’è il rischio di non avvedersi dei difetti fisici di quelle e delle impurità di queste, e quindi di restar fregati. Si faccia come Paride, il quale, chiamato ad eleggere la più bella tra Giunone, Minerva e Venere, come rimarca Ovidio (ars I 247 s.): luce deas caeloque …spectavit aperto,| cum dixit Veneri «Vincis utramque, Venus»=«in piena luce, sotto l’aperto cielo … contemplò la bellezza delle dee, quando a Venere disse: “Tu, o Venere, vinci l’una e l’altra”»; infatti, nocte latent mendae vitioque ignoscitur omni, | horaque formosam quamlibet illa facit =«di notte si occultano i difetti, si indulge a ogni neo e quello scorcio di tempo rende bella qualsiasi donna», continua il poeta, fino a prescrivere: consule de gemmis, de tincta murice lana, | consule de facie corporibusque diem: «affidati alla luce del sole, se vuoi giudicare sia le pietre preziose e la lana tinta di porpora, sia i volti e i corpi»[37]. A noi non sembra irragionevole ipotizzare che proprio da quest’ultimo distico abbia tratto ispirazione l’antico inventore del nostro proverbio, il quale, opportunamente, tralasciò le gemme e sostituì le tele (di lino o canapa) alla porpora[38]: la gente povera e semplice a cui si rivolge l’adagio non conosceva lo sfarzo[39].
Tutti conoscono invece il detto popolare: Giacchine ha misse la legge e Giacchine è muorte accise (Gioacchino ha fatto la legge e Gioacchino è morto ucciso). Il personaggio storico a cui si allude qui antonomasticamente col solo nome è Gioacchino Murat, re di Napoli, il quale, chiosa il Magliocca (pp. 51 s., n. 457), «fu condannato a morte in base ad una legge da lui stesso emanata»[40]. Sicuramente Ovidio avrebbe approvato un tale contrappasso, in quanto teorizzatore del principio secondo il quale «nessuna legge è più equa di quella per cui gli inventori di morte periscano per la loro invenzione» (ars I 653 s.)[41], principio scaturito dalla considerazione degli esempi di Trasio[42] e Perillo[43], riferiti ai precedenti vv. 645-652.
 
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Ci piace concludere con una divagazione, suggeritaci dal seguente epigramma di Marziale[44] (III 57): callidus inposuit nuper mi copo Ravennae:| cum peterem mixtum, vendidit ille merum: «un oste ravennate | l’altro giorno m’ha imbrogliato: | mi vende vino puro, | lo volevo annacquato»[45]. Dunque il poeta, a Ravenna, ha chiesto a un oste del vino annacquato (così i Romani usavano bere il vino), e quel furbo gli ha dato invece del vino … genuino (di solito avviene il contrario, che si chiede vino schietto, e da un vinaio disonesto si riceve vino annacquato)[46]. Come si spiega una tale stranezza? Col fatto che in quella città l’acqua costava molto più del vino, tanto che lo stesso Marziale, nell’epigramma precedente a questo, asserisce che lui, a Ravenna, preferirebbe possedere una cisterna, piuttosto che una vigna, potendo vendere l’acqua molto più cara del vino. Ovviamente questo non ha nulla che vedere con i proverbi e i modi di dire del popolo gaetano; ha che vedere, però, con Nicola Magliocca in persona, il quale, nel corso di un soggiorno a Chianciano, in data 7 luglio 1952, tra le altre cose annotava[47]: «Si crede … che a Chianciano, luogo delle acque, non abbia diritto di cittadinanza il vino. Non è vero! Nell’ultimo negozio di viale Roma si è installata una mescita di vini di Montepulciano. Clienti ne trova molti? Non sappiamo dirlo. Però ce ne vediamo sempre tutte le volte che passiamo di lì. Saranno dei buontemponi che, avendo fatto la mattina la cura dell’acqua, la sera fanno quella del vino. È una cura integrativa, insomma una cura che non fa certo male, tanto più che rispetto all’acqua – ci credereste? – costa molto di meno. Una cura che si dovrebbe fare a dispetto dell’acqua, che te la fanno pagare a 350 lire il bicchiere. “Evviva il vino di Montepulciano che costa solo 35 lire!”». Vero è che Chianciano (Toscana) è ben distante da Ravenna (Emilia-Romagna), ma a noi premeva solo mettere in luce, attraverso il parallelo con l’epigrammatista latino, la sottile ed operosa arguzia di Nicola Magliocca.
Ci fermiamo qui, è suonata l’ora di pranzo. Che cosa abbiamo di buono? Un bàine de fasuĝlie strascenate e un piattino di picchiácchiere e fogliamuoglie, con due bicchieri di chiarenza: siamo o non siamo di Porta di Terra, parrocchia di San Biagio, protettore della gola? E «Santu Biàzie – come recita il proverbio (M. p. 107, n. 1121) – è rumaste a Porte de Terre».
 
  
 
 NOTE
 
 
[1] È la seconda edizione, del 1992, quella che abbiamo sott’occhio.
[2] Sono appunto l’intelletto e il cuore le doti bibliche del MAGLIOCCA richiamate dal prof. Erasmo VAUDO nella presentazione del volume: Il senso della vita (p. 7), una raccolta antologica degli scritti civili, editi e inediti, del MAGLIOCCA, pubblicata a Gaeta, in grazia dell’amorevole riguardo della moglie e delle figlie, nel 2004, tre anni dopo la sua scomparsa, avvenuta il 15 agosto del 2001: il libro, per il valore intrinseco e per la straordinaria personalità dell’Autore, meriterebbe di essere letto e meditato da ogni cittadino di Gaeta.
[3] Al totale di 2447 espressioni si devono aggiungere i nn. 794a, 875a, 1862a, 2074a, 2247a.
[4] Senza soffermarci sulle caratteristiche e sulla rilevanza di quest’opera fondamentale, ricorderemo solo che il MAGLIOCCA la dedicò ai suoi concittadini, a ulteriore dimostrazione del suo commovente amore per questa città; una città in cui non si direbbe che alligni il detto ciceroniano (Tusculanae I 4): honos alit artes («l’onore alimenta le arti»), sembrando i suoi abitanti inclini a dar riconoscimento a questo, a quello e a chi altro più che ai veri artisti, e inadeguata è per noi l’intitolazione a Nicola MAGLIOCCA del solo Archivio Storico del Comune di Gaeta: quanti lo sanno o hanno occasione di visitare questo Archivio?
[5] A questi aggiungeremmo anche Fedro III 74, 26: illius interesse ne faciat moram=«è suo interesse non indugiare».
[6] Ci limiteremo ai soli esempi di fà le verte, che il MAGLIOCCA (p. 185, n. 1650) fa risalire a vertere in, espressione propria della metamorfosi; al termine foche (M. p. 227, n. 1898): mette la foche ‘n canne=«mettere la foche alla gola», che si fa derivare da focale (da fauces=«fauci, gola»), che era una fascia da collo per i malati e i soldati, e, in ultimo, alla locuzione ‘n zine (M. p. 248, n. 2017), che è pari al lat. in sinu. Non sarà che alla lista debba aggiungersi anche il vocabolo tope, con cui, ci informa il MAGLIOCCA (p. 307, n. 2361), si indica la «buccina, grossa conchiglia conica di tritone che … emette un suono assai cupo»? Secondo noi, ma anche questa è una pura suggestione uditiva, tope, potrebbe corrispondere a tuba (per la modifica della vocale radicale cf. il gaetano còttere per cutter, mentre per lo scambio b/p cf. il gaetano Bullacche per Polacco, e Serbe=«Serapo»: soprattutto cf. il gaetano vorbe=«volpe» da vulpis), ossia la tromba che nell’antica Roma dava all’esercito il segnale di partenza per la guerra.
[7] Differenziati anche nel proverbio (M. p. 95, n. 996): perciò gliu poverieglie è pezzente, pecché va pe la vie e rasteme glie Sante (il povero è pezzente perché va per la via e bestemmia i Santi).
[8] Cf. Seneca, epistolae 87,39 paupertas … est non quae pauca possidet, sed quae multa non possidet =«la povertà consiste non già nel possedere poche cose, ma nel non possederne molte».
[9] Cf. anche Petronio, satyricon 125 nempe rursus fugiendum erit, et tandem expugnata paupertas nova mendicitate revocanda=«Perdiana, ci toccherà darcela a gambe e ripigliare a vivere d’espedienti dopo esserci staccata di dosso la miseria» (trad. di Luca CANALI, Petronio Arbitro. Satyricon, Milano 19864, p. 373).
[10] Dal lat. apprimo=ad+premo: cf., p. es., Tacito, annales II 21, 1 scutum pectori adpressum (lo scudo attaccato al petto).
[11] Per questo cf. il francese tout casse, tout passe, tout lasse, et tout se remplace=«tutto si rompe, tutto passa, tutto stanca, e tutto si sostituisce».
[12] Dal lat. laxare=«allargare», il cui contrario è artare=«stringere».
[13] È la bella Atalanta, che nelle gare di corsa vinceva tutti i suoi pretendenti, che poi venivano messi a morte.
[14] Trattasi di Ippomene, che, con l’aiuto di Venere, riuscirà a vincere e sposare la fatale fanciulla.
[15] La trad. è di Piero BERNARDINI MARZOLLA, Publio Ovidio Nasone. Metamorfosi, Torino 19942, p. 419.
[16] La trad., come le altre dell’ars che seguiranno, è di Enrico ODDONE, Ovidio. L’arte di amare, Milano 19943, p. 87.
[17] Per questo tipo di ellissi logica cf. il modo di dire: i diche ca piove … :«io dico che piove …» da completare con «ma tu fai venì le pisciarelle» (ma tu fai venire l’acqua a catinelle): MAGLIOCCA, p. 205, n. 1769.
[18] Danaos per Graecos (così già in Omero), qui è carico di disprezzo: Danao, capostipite del popolo greco, costrinse le 50 figlie (solo Ipermestra non gli obbedì) a uccidere, la stessa notte delle nozze, i rispettivi mariti e cugini, figli del re Egizio.
[19] Ce ne dà autorevole testimonianza Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury (sec. XII), in epp. ad Alexandrum Papam 24 (Migne CXC. 473D): sed proverbium est, timeri Danaos et dona ferentes.
[20] Terenzio, Andria 194.
[21] Trattasi, come dai più si ritiene, del pozzo. Apollo è evocato qui come dio della profezia, col santuario a Delfi.
[22] I due re sono Aiace e Giacinto, che è anche il fiore dell’indovinello (la trasformazione è narrata da Ovidio nelle metamorfosi: X 162-219). Invece Fillide è la fanciulla amata da Menalca.
[23] Indicando nell’uomo l’essere che prima (quando è bambino) cammina con quattro gambe, poi (quando è adulto) con due, e in ultimo (quando è vecchio col bastone) con tre.
[24] Riferiamo testualmente da “La settimana enigmistica”: tra le nostre carte abbiamo ritrovato il solo numero di rubrica (65304) di questa spigolatura.
[25] Cf., p. es., Quintiliano, declamationes maiores III 54,13 cum alii excubent armati, alii … cibum ipsum stantes capiant, tribunus inter scorta volutabitur … ? =«mentre alcuni (soldati) bivaccano in armi, altri … persino il rancio consumano in piedi, un tribuno si rotolerà tra le meritrici … ?».
[26] Il MAGLIOCCA non tralascia mai di illustrare l’impegno storico di questi modi di dire.
[27] «In questa città – continua Petronio – si entra come in un campo ammorbato dalla peste, dove non c’è altro che cadaveri spolpati, o corvi che li spolpano».
[28] Chi non ricorda l’oraziano (carm. I 37,1 s.) nunc pede …| pulsanda tellus =«ora si deve battere la terra con i piedi»?
[29] Il satirista romano del I-II sec. d. C., originario probabilmente di Aquino, noto, oltre che per il rigorismo morale, per la sentenziosità del suo stile: sarà sempre il caso di ricordare una delle sue più celebri e toccanti sententiae: maxima debetur puero reverentia=«al fanciullo si deve il massimo rispetto».
[30] Riferita, appropriatamente, allo scialacquatore, il quale, essendo vissuto nel lusso, in vecchiaia dovrà mendicare (per questo teme quell’età più della morte).
[31] Il proverbio, tagliato apposta per i fortunati e i privilegiati di ogni tempo, si spiega perché le galline bianche, «di buon auspicio, erano riservate all’imperatore per pratiche religiose e sacrifici» (Giovanni VIANSINO, Giovenale. Satire, Milano 2010 rist., p. 483).
[32] La trad. è del VIANSINO (ediz. cit.), il quale (p. 263) annota: «”dono del mattino”, dopo la prima notte di nozze (monete d’oro su una ciotola preziosa, coniate in onore delle vittorie di Traiano su Daci e Germani: a. 97-102 d.C.)».
[33] Sat. 77,6 assem habeas, assem valeas; habes, habeberis=«hai un asse, vali un asse; hai quattrini, sarai stimato».
[34] Epistolae 115, 14 (traduzione di lirici greci) an dives omnes quaerimus, nemo an bonus. | Non quare et unde, quid habeas tantum rogant. | Ubique tanti quisque, quantum habuit, fuit=«tutti vogliamo sapere se uno è ricco, nessuno se è onesto. | Si chiede solo quali siano i suoi possessi, e non già perché e come li ha ottenuti. | Da per tutto l’uomo vale quanto possiede» (la trad. è di Giuseppe MONTI, Lucio Anneo Seneca. Lettere a Lucilio, II, Milano 1985, p. 979).
[35] Sat. 3, 143 s. quantum quisque sua nummorum servat in arca, | tantum habet et fidei =«quanti soldi ciascuno conserva nel suo forziere, | tanta fiducia anche riscuote» (la trad. è del VIANSINO, p. 121).
[36] De disciplina Christiana 11, 12 unde et illud proverbium “quantum habebis tantum eris”= «da qui anche il proverbio: “quanto avrai tanto varrai”».
[37] Per questa ragione Ovidio, nel libro III dell’ars, dedicato alla donna, raccomanda a questa (vv. 751 ss.) di arrivare sempre tardi a un banchetto, e quando già si sono accese le lampade; in tal modo «anche se sarai bruttina, agli uomini che han già bevuto apparirai seducente e sarà proprio l’oscurità notturna a concedere nascondiglio ai tuoi difetti fisici».
[38] Come annota l’ODDONE (ediz. cit.,p. 140), «c’era pure una falsa porpora delle lane, non certo quella di Tiro o Fenicia molto preziosa, bensì quella casalinga, a buon mercato, di Aquino … L’inesperto, o qualcuno tradito dalla scarsa luce, potevano acquistare questa per quella». Per chi si recava al mercato a tarda ora l’oscurità era un’insidia, come ci attesta Petronio (sat. 12,1: la trad. è di Luca CANALI, ediz. cit. , p. 127):«Giungemmo al mercato verso sera. C’era una gran quantità di roba in vendita: non molto preziosa, a dire il vero, ma che, a ogni modo, poteva tener facilmente nascosta, nell’oscurità dell’ora, la sua provenienza sospetta».
[39] Come il Trimalchione dello stesso Petronio (sat. 28,2), il quale, tutto cosparso di unguenti, si faceva asciugare non linteis, sed palliis ex lana mollissima factis =«noncon tela comune, ma con panni di morbidissima lana» (trad. di L. CANALI, ediz. cit., p. 151).
[40] Così già Licinio Stolone, promotore nel 367 a.C. di una legge che fissava a 500 iugeri il limite massimo del latifondo, fu condannato lui stesso in base alla sua legge: et ipso sua lege damnato (Plinio, naturalis historia XVIII 17).
[41] Cf. anche Fedro I 27,1 s. si quis … laeserit, | multandum simili iure fabella admonet=«la favoletta insegna che chi fa male deve essere punito per la sua stessa legge».
[42] Essendo l’Egitto afflitto da una grave siccità che durava da nove anni, Trasio, un indovino di Cipro, si presentò al re Busiride e gli rivelò che Giove poteva essere placato, se si spargeva il sangue di uno straniero. E Busiride: «Sarai per primo tu la vittima pretesa da Giove – gli disse – , tu, quale straniero, procurerai piogge all’Egitto».
[43] Costruì per Falaride un toro di bronzo, in cui le vittime di quel tiranno venivano bruciate vive a fuoco lento, sì che le loro grida strazianti risuonassero come i muggiti del toro; ma fu proprio lui, Perillo, a inaugurare il suo orrendo strumento di tortura (cf. Ovidio, tristia III 11, 39 ss. e V 1, 53 s.; Ibis 437 s.).
[44] Il poeta latino nativo di Bilbilis (Spagna Tarragonese), amico e collega … di fame di Giovenale.
[45] La trad. è di Guido CERONETTI, Marco Valerio Marziale. Epigrammi, Torino 1979 rist., p. 203.
[46] Quello che nell’idioma gaetano si definisce miezu vine, «mezzo vino, detto anche acquate»: MAGLIOCCA, p. 232 (n. 1928).
[47] Il senso della vita, cit., p. 336.

IL CULTO MAGICO DI CIBELE A GAETA

A Gaeta era praticato anche il culto di Cibele, nella zona compresa tra Conca e Pontone, in particolare, nel litorale antistante la Via Canzatora, nella proprietà Magliozzi, fu ritrovata una statua di Cibele.
L'autore è ignoto ma la statua è stata datata attorno al I secolo a. C. Madre gli dei e degli uomini, Cibele aveva dato origine all'universo senza la collaborazione maschile. Cibele era nota anche come Megale, la Grande Madre Idea, la benedetta.
Seppur vergine, Cibele aveva partorito un figlio, Attis il bello, che col tempo divenne amante di sua madre e il suo più grande amore.
Cibele ne era gelosissima e quando Attis s'innamorò, ricambiato, di una ninfa, figlia del Re Mida, Cibele per vendetta lo fece impazzire e Attis si evirò. Altre varianti del mito dicono che Attis sia poi resuscitato, o che fu salvato da Cibele stessa, che lo trasformò in un pino non appena toccò il terreno.
La versione più conosciuta è comunque quella che vuole che Cibele abbia ottenuto solamente l'incorruttibilità del corpo di Attis.
Cibele e Attis sono spesso raffigurati sul carro rituale, come nella Patera di Parabiago, un piatto d'argento riccamente inciso a sbalzo e ritrovato durante gli scavi nelle fondamenta della villa del senatore Felice Gajo a Parabiago, comune della provincia di Milano, nel 1929.
Cibele è anche raffigurata sola su un trono con la polos ossia un ornamento cilindrico, tipico delle divinità orientali antiche. Una corona turrita. Oppure su un carro trionfale trainata dai leoni. Famosa è la fontana di Cibele a Madrid, presente nella piazza appunto chiamata Plaza De Cibeles. E' probabile supporre che anche la nostra Cibele avesse a suo corredo i leoni...tuttavia mai ritrovati.
A Gaeta furono ritrovate quattro iscrizioni inerenti al culto di Cibele. Parlano di due sacerdoti e di due sacerdotesse.
Rilevante la seconda iscrizione, perché la sacerdotessa Elvia Stephanis documenta un battesimo di sangue durante il consolato di Gordiano e Pompeiano nel 241 d. C.
Questa lastra in marmo, rinvenuta a Gaeta, lungo la Via Appia nel 1772, mancante in una piccola parte sul lato destro, afferma che Helvia , sacerdotessa della Magna Mater, nell'anno del secondo consolato dell'imperatore Gordiano, sacrificò a Cibele un toro.

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Infatti la lastra dice:
“HELVIA STEPHANIS , SACERDOS M (Atris) M(agne) D (eae) ” –
“Elvia Stefanis , Sacerdotessa della Dea Magna Mater”. ( Cibele) nel Consolato Secondo di Gordiano , in quanto sacerdotessa della Grande Madre Dea, effettuò un taurobolium ossia sacrificò un toro alla sua Divinità, Cibele.
Era noto infatti, che Cibele avesse delle sacerdotesse, come appunto era Elvia Stefani, che su una lapide volle rendere incisa per sempre la memoria di un sacrificio rituale.
Questa iscrizione si conserva presso i Musei Vaticani.
Queste iscrizioni sono importantissime per la storia della città di Gaeta, in quanto testimoniano che ci fosse un reale culto alla Dea.
Il culto greco è romanizzato e associato alla tauromachia. E' un culto misterico cioè a carattere esoterico fatto di cerimonie magiche segrete che gli adepti non devono rivelare per nessun motivo.
Cibele non era una dea qualsiasi, era originale anche nei suoi Sacri Misteri, perché a chi osasse attraversarli, Ella svelava i segreti della vita e della morte. Segreti mai rivelati,tanto che a noi non è giunto nulla.
Gli adoratori di Cibele erano sottoposti alla cerimonia del "taurobolio" ossia al sacrificio di un toro, effettuato a scopo rituale e presente in molti culti di diverse divinità antiche, ma principalmente in quello della "Grande Madre", Cibele.
Il devoto era introdotto in una cella sotterranea, coperta da una graticola di legno. Il toro era posto sopra questa graticola e sacrificato immediatamente. Il suo sangue colava dalla graticola sulla persona nuda e sdraiata sotto, la quale doveva assicurarsi di essere bagnata da quel sangue quanto più possibile.
Il sangue purificatore ripuliva dai peccati l'adepto, che rinasceva spiritualmente. Non solo, rendeva immortale la sua anima.
Tutto lordo di sangue, il nuovo adepto usciva e attestava la sua purificazione alla folla, inneggiante fuori la cella.
Era a tutti gli effetti un "battesimo di sangue".
Sacerdoti e sacerdotesse ( solitamente ex schiavi emancipati) presiedevano ai riti e le sacerdotesse preparavano i nuovi adepti ai Misteri.
I sacerdoti di Cibele, i Coribanti, consideravano il sangue, un elemento molto importante della ritualità, per la sua potenza redentrice. Il battesimo cruento serviva proprio alla purificazione dei peccati del devoto.
Interessante la somiglianza con alcuni elementi della Religione Cristiana: il sangue versato dell'agnello Divino, che lava dai peccati e l'immortalità dell'anima, ottenuta dalla redenzione della colpa.
La discesa del devoto nella cella sotterranea equivarrebbe alla discesa nel sepolcro cristiano.
Dai peccati che fanno morire l'anima, al pentimento e alla nuova vita spirituale.
Questo percorso del devoto di Cibele è il cammino antecedente a quello dei cristiani oggi.
Già nel culto di Cibele, troviamo il concetto di resurrezione.
La statua di marmo italico alta circa 1,70 m., è stata rinvenuta nel 1892, in un sacello privato dedicato alla dea Cibele , nel terreno di proprietà privata di un cittadino di Gaeta; nonostante questo è nota come la Cibele di Formia. Ingiustamente direi. Dovrebbe essere universalmente nota come la "Cibele di Gaeta" e il Comune dovrebbe ricomprarla.
Il sacello, ossia "recinto sacro", riferito all'architettura romana, indica una parte dell'edificio dedicata al culto di divinità minori o familiari, recintato e con al centro un piccolo altarino. Ma nel sacello venivano anche poste statue, fontane, tavoli per le libagioni. Nell'antichità infatti, si effettuavano cerimonie con spargimento di essenze, o liquidi alimentari, quale atto di offerta alla divinità o ai defunti.
La statua di Cibele fu poi acquistata dal mercante danese Carl Jacobsen nel 1894 e trasferita all'estero.
Oggi si trova al Museo Carlsberg di Copenaghen, il quale ospita diversi reperti romani provenienti dalle nostre zone.
Presso il Museo Archeologico Nazionale di Formia se ne può ammirare una copia in gesso ottenuta da un calco eseguito sull'originale.

Eneide, Virgilio.
Preghiera di Enea:

Madre degli Dei Immortali,
Lei prepara un carro veloce, tirato da leoni uccisori di tori:
Lei che maneggia lo scettro sul rinomato bastone,
Lei dai tanti nomi, l’Onorata!
Tu occupasti il Trono Centrale del Cosmo,
e così della Terra, mentre Tu provvedevi a cibi delicati!
Attraverso Te c’è stata portata la razza degli esseri immortali
E mortali!
Grazie a Te i fiumi e l’intero mare sono governati!
Vai al banchetto, o Altissima! Deliziante con tamburi, Tamer
Di tutti,
Savia dei Frigi, Compagna di Kronos, Figlia d’Urano,
l’Antica, Genitrice di Vita, Amante Instancabile,
Gioconda, gratificata con atti di pietà!
Dea generosa dell’Ida, Tu, Madre degli Dei,
che porta la delizia a Dyndima e nelle città turrite
e nei leoni aggiogati in coppie, ora guidami negli anni a venire!

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Il Culto della magia sessuale
Il culto di Cibele a Gaeta, è un culto importante, che mai è stato approfondito, e che a mio avviso, necessita di alcune osservazioni.
Questo culto implicava la credenza nel potere della magia sessuale mediante riti misteriosi che erano uno scandalo per la sensibilità romana. Ma si sa che i romani predicavano bene e razzolavano male. E' molto probabile che gli adepti di questo culto fossero personalità importanti che soggiornavano frequentemente a Gaeta. Personalità prive di morale, che non avevano alcuna remora a concedersi sessualmente a persone sconosciute, facenti parte della stessa setta.
La sacerdotessa che presiedeva al culto, era seguita da una schiera di eunuchi e uomini travestiti da donna e donne seminude e lascive. Ai riti erano anche presenti sacerdoti e vari funzionari statali vestiti in abiti bizzarri o quantomeno sessualmente ambigui, truccati e depilati come donne.
Risuonavano canti e musiche di cembali e tamburi, si recitavano strofe sacre in siriaco; si officiavano sacrifici animali, in particolare tori, col cui sangue si battezzavano i nuovi adepti. I comportamenti licenziosi, l'uso di droghe antiche derivanti dalla spiga di orzo, la promiscuità sessuale, erano troppo per la religio romana ufficiale, che li vedeva come un oltraggio al proprio credo religioso.
Ecco perché erano culti misterici ma anche misteriosi, segreti, fatti di nascosto, e dei quali solo gli adepti dovevano esserne a conoscenza, senza tramandarne i riti.
A differenza dei Saturnali e dei Lupercali romani, che implicavano la stessa enfasi e delirio collettivo, questo culto aveva una notevole componente erotica.
Le sfrenate pratiche erotiche avevano la funzione di ridare nuova vita a Cibele, la grande Madre, di evocarne il principio e risvegliare la sua presenza in un determinato luogo.
E' un rito magico operativo in cui la carnalità serve a congiungersi con la Dea.
Le orge rituali poi erano residui di cerimonie agrarie connesse con i cicli della vegetazione, allo scopo di rinvigorire le forze produttive degli esseri umani, degli animali, della terra.
Con le orge rituali si tentava di sventare una calamità, crisi sociali, siccità, epidemie, fenomeni meteorologici normali ma che l'uomo non riusciva ancora a comprendere, tornando alle origini.
In intervalli sacri o in determinati periodi dell'anno, l'orgia rituale intendeva un ritorno alle origini primordiali.

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Tratto da Gaeta Magica di Betta Zavoli

BB GAETA - Le origini del nome GAETA - BB GAETA

GAETA, Le origini del nome.

Affascinanti, perdute nella notte dei tempi, le origini del nome Gaeta sono legate alla geografia del luogo, ma anche alla storia e alla mitologia.

Ecco alcune tra le più accreditate:

Aeneas_Erects_a_Tomb_to_his_Nurse_Caieta_and_Flees_the_Country_of_Circe_Aeneid_Book_VII_MET_DT10857.jpgEnea costruisce la tomba per la sua nutrice Caieta e fugge dalle terre di Circe, smalto su rame del Maestro della leggenda di Enea (1530-1535 circa)


Le origini del nome di Gaeta (in latino: Caiēta, in greco Kaièta, Καϊέτα) sono tuttora avvolte nella leggenda:

Strabone non parla della città ma solo del golfo, detto "Καιάτα" (Kaiata), nome che deriverebbe dal termine "καϊέτα" (caieta) usato dai Laconi per indicare ogni cosa cava, con chiaro riferimento all'ampia insenatura del golfo stesso; lo stesso autore riporta però che altri fanno derivare il nome da quello della nutrice di Enea;


Diodoro Siculo collegò il territorio gaetano al mito degli Argonauti facendo derivare il nome della città da Aietes, mitico padre di Medea (nipote di Circe), la maga innamorata di Giasone.


Virgilio, nell'Eneide trovò la sua origine nel nome della nutrice di Enea, Caieta, sepolta dall'eroe troiano in quel sito durante il suo viaggio verso le coste laziali. Dante Alighieri, quasi a significare la storicità dell'Eneide, confermò l'avvenimento.

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Altre fonti prendono il nome di Gaeta da Aiete, figlio del dio sole Elio, il cui soprannome è "L'Aquila"; egli sarebbe il fratello della nota Maga Circe. Questo appellativo le sarebbe stato dato per l'insolita struttura geografica della città che ricorda appunto la testa di questo famoso rapace.

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