Caieta in un passo di Stazio

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A consultare l’indice dei nomi dell’intera opera di Publio Papinio Stazio, il poeta latino fiorito sotto i Flavii (seconda metà del I sec. d. C.), invano si cercherà Caieta (e Caietanus, presente in tutta la latinità classica, solo in Giulio Paride, epitome I 4, 6 in villa Caietana – quella in cui Cicerone fu ucciso dai sicari di Marco Antonio -, e, come nome proprio di persona, in Marziale VIII 37, 1 e 4). Ugualmente infruttuosa riuscirà la ricerca di una qualsiasi allusione a Caieta a una lettura integrale della Tebaide e dell’Achilleide (circa 11.000 versi): la materia stessa – la guerra fratricida per il regno di Tebe dei due figli maschi di Edipo, e l’epopea del Pelide, troncata peraltro, come in un simbolico naufragio, nel bel mezzo della navigazione dell’eroe da Sciro a Troia – e l’ambientazione orientale (a cui, unitamente a Medea, soggiace anche Circe in Tebaide IV 550-551 qualis … / Colchis et Aeaeo simulatrix litore Circe) di questi due poemi non favorivano certo un tal riferimento. Ma Stazio, oltre che epico, è anche poeta lirico, autore delle Selve, una raccolta di carmi in metro vario e di diversa estensione (32 in tutto, divisi in 5 libri, ma l’opera ci è giunta incompleta), composti occasionalmente, ognuno nel breve volgere di uno o due giorni allo scopo dichiarato di conservare a un tal genere di poesia, di stile più tenue, la fresca attualità dell’ispirazione estemporanea. Proprio in uno di questi carmi, come si sperava, troviamo un elegante riferimento circumlocutivo, tanto erudito quanto evidente, a Caieta; ciò avviene nella terza selva del libro I (un centinaio di esametri), in cui il poeta descrive, celebrandone le meraviglie e lo sfarzo, la villa tiburtina del «facondo» e «coltissimo» Publio Manilio Vopisco, un poeta e letterato (e, come sembra dalla prefazione di questo libro, anche filologo) del tempo: è tale la magnificenza di questa villa che dinanzi ad essa dovrebbero farsi da parte, con tutte le altre che Vopisco possedeva, anche le ville sul basso litorale tirrenico – dal Circeo a Terracina, giù giù fino a Gaeta -, dove egli era solito svernare: vv. 85-88: cedant vitreae iuga perfida Circes, / Dulichiis ululata lupis arcesque superbae / Anxuris et sedes Phrygio quas mitis alumno / debet anus: «ceda il perfido promontorio della vitrea Circe, sul quale echeggiò l’ululato dei lupi che furon compagni dell’eroe dulichio, e cedano vinte le rocche superbe di Anxur e la sede che la buona vecchia deve al suo alunno frigio» (la traduzione, come le successive di Stazio, è di A. Traglia – G. Aricò, Torino UTET, 1980); per vitreae … Circes cfr. Orazio, Odi I 17, 20; ma nel passo di Stazio, a nostro vedere, i due epiteti andrebbero mentalmente scambiati tra loro, alludendo vitreae più propriamente alla translucidità [dell’acque] del Circeo, e perfida all’arti malefiche della maliarda, capace di trasformare i compagni di Ulisse in lupi [in porci in Omero, Od. X 233 ss. e Ovidio, met. XIV 273ss.]). Con Phrygio … alumno a v. 88 (come con Iliaco … marito a selve III 1, 74) si indica per l’appunto Enea, mentre la vecchia che gli deve la sede è, come si ricava dallo stesso alumno, la sua nutrice, quella Caieta che lo seguì da Troia fino in Italia, per dare «eterna fama» al lido su cui morì ed ebbe sepoltura (Virgilio, Eneide VII 1-4). Come in Tebaide XI 664 (tristes sine sedibus umbrae) sedes è giusto usato qui, da solo, nel senso virgiliano (Eneide VI 152, 328 …) di sedes quietae, vale a dire «tomba» (Tebaide XI 569 nec sedes umquam meriture quietas): per tale eufemistica pregnanza di sedes rimane nell’ombra l’immagine del tumulus (Ovidio, met. XV 716 quam tumulavit alumnus) che, messa in rilievo, avrebbe disturbato l’idea dell’amenità del luogo che si vuol suscitare. Così debet, rovesciando la prospettiva a parte Caietae (era piuttosto Enea che per naturale obbligo d’affetto doveva il sepolcro alla cara nutrice), fa risaltare ancor più la rinomata pietas dell’eroe, espressamente richiamata da Ovidio nell’epitimbio di Caieta, che s’immagina dettato dalla stessa Aeneia nutrix, in met. XIV 443-444: hic me Caietam notae pietatis alumnus / ereptam Argolico, quo debuit, igne cremavit: «qui giaccio io, Caieta. Salvatami dalle fiamme degli Argivi, il mio figlioccio famoso per la sua devozione, qui mi ha cremato con le fiamme dovute» (trad. di P. Bernardini Marzolla, Torino Einaudi, 1979). Ma il particolare che, suggestivamente, contribuisce efficacia rappresentativa al solenne quadro d’insieme è mitis, formalmente – e convenzionalmente, considerato che la mitezza è un tratto caratteristico dei vecchi: Ovidio, fasti V 64 nomen … aetatis mite senatus habet – attribuito ad anus, nel senso di «dolce d’animo», ma concettualmente più efficace se riferito alla dolcezza del clima rivierasco del ridente sito; lo scambio d’attribuzione, con la conseguente anfibologia di mitis, è giustappunto agevolato dall’identificazione del luogo col personaggio eponimo: cfr. l’omologo passo di selve IV 8, 7-8 dilecta … miti / terra Dicaearcho (trattasi di Pozzuoli, terra cara al “mite” suo fondatore), dove «miti contains a double entendre: it describes mild personality … and also denotes an equable climate» (K. M. Coleman, Statius. Silvae IV, Oxford 1988, p. 211, che però non cita il nostro passo). Sarà interessante conoscere, allora, che cosa Stazio intendesse esattamente per mitis detto di una località; ce ne dà idea lo stesso poeta parlando, nella selva quinta del libro III, della sua terra d’origine, che «non è la barbara Tracia, né la Libia» - perennemente gelida l’una e torrida l’altra -, sì bene «la mite Partenope», una dimora (sedes), questa di Napoli, il cui clima (vv. 83-84) et mollis hiems et frigida temperat aestas, / quas imbelle fretum torpentibus adluit undis: «è temperato, con tiepidi inverni e fresche estati, un mare tranquillo la lambisce con le sue languide onde». Ma Stazio, proseguendo, aggiunge ancora: pax secura locis et desidis otia vitae / et numquam turbata quies somnique peracti: «regna in questa zona una pace serena, l’ozio di una vita di riposo e la quiete non subiscono turbamenti e si dormono lunghi sonni»; una notazione, questa, che, estesa con le precedenti alla «mite Gaeta», potrebbe invitare, oggidì, a una polemica che in questa sede, ovviamente, sarebbe fuori luogo.

* "Caieta in un passo di Stazio" è una nota filologica inedita che accende una nuova luce sulle origini del nome di Gaeta.

L'autore

Salvatore Marruzzino (Aversa 1949) è docente universitario in Lingua e Letteratura Latina presso l'Università Federico II di Napoli. Vive da anni a Gaeta di cui è grande appassionato.